…e Alfonso se la ride sotto i baffi
Da sinistra verso destra. Palazzo dei Notai, prima del restauro. L’edificio tra Palazzo Re Enzo e Palazzo del Podestà prima di essere demolito e poi sostituito con un collegamento. Messa in opera del progetto di collegamento tra Palazzo Re Enzo e Palazzo del Podestà.
Sulla vicenda dell’infobox di Piazza Re Enzo che da qualche mese divide l’opinione pubblica a Bologna, mi sento in dovere di dare un mio personale contributo allo scopo di aggiornare il dibattito e ridimensionarne le critiche di chi vede sostanzialmente questa architettura contemporanea lo scempio barbaro della modernità, l’oltraggio al nobile passato medioevale, l’aggressione alla sacra bolognesità. Faccio questo ricordando ai miei concittadini come sia ‘falsa’ o meglio sia stata ‘falsata/falsificata’, in tempi non lontani, l’immagine che noi abbiamo della parte cosiddetta ‘storica’ della città. Con l’ausilio di alcune citazioni, si cercherà di ricostruire alcune pagine poco note – se non addirittura rimosse o prudentemente occultate – della storia di Bologna e della sua ‘identità’ quale si era venuta costruendo nel periodo dei ‘restauri’ condotti da Alfonso Rubbiani (1848-1913) e dai suoi seguaci. Sarà proprio lui architetto e ‘restauratore creativo’ ha lasciarci in eredità una scena urbana profondamente segnata da una soggettiva visione della storia – ed in particolare del periodo medioevale – coltivata e praticata nel periodo che va circa dal 1880 al 1910 su piazze, chiese, palazzi, ed interni.
Rubbiani era ossessionato e affascinato dal medioevo che vedeva come una stagione dinamica e ricca di valori di cui far rivivere. Infatti, riferendosi alla fabbrica ‘incompleta’ della Basilica di San Petronio, egli individua nell’operato degli antichi costruttori la volontà di non completare la facciata della chiesa per dare ai posteri la possibilità di farlo. Così si legge nei suoi scritti: “Si è fatto un torto al medioevo di aver lasciato tanti monumenti incompleti, e per giunta semenza manco un boccon di disegni in carta. Ma il torto è più dalla parte di chi muove questa gretta lagnanza: siamo noi che nella nostra piccolezza non sappiamo apprezzare quest’eredità dinamica lasciataci dai secoli cristiani. Il medioevo si piaceva anzi a lasciare ai posteri delle idee da svolgere, dei ragionamenti da concludere più che dei fatti compiuti da ammirare sbadigliando” (Alfonso Rubbiani, “Bologna sacra e profana, cronache, saggi e fantasie”, Bologna 1982, ristampa). Con queste parole di sorprendente modernità Rubbiani – oltre a rivolgersi, probabilmente, in modo critico ai suoi contemporanei – ci ricorda che l’autenticità in architettura non esiste; che la storia va studiata, che dalle vicende del passato c’è sempre qualcosa da imparare; che l’architetto è in fin dei conti un ‘revisionista’, un manipolatore della storia.
Mazzei, parlando del Nostro in “Alfonso Rubbiani, la maschera e il volto della città. Bologna 1879 -1913” (Cappelli, Bologna 1979) così ne sintetizza la personalità: “Rubbiani era quel che oggi si direbbe un teorico creativo, e come tale ha diritto di essere ricordato, riconosciuto e magari contestato. Criticarlo come teorico è certamente giusto, detestarlo come urbanista è altrettanto legittimo, criticarlo come rappresentante di una classe reazionaria che si servì di lui e del suo lavoro come alibi umanistico per la sua politica è altrettanto comprensibile, ignorarlo come artista è certamente scorretto”. È per questa sua natura ‘artistica’ che per Mazzei bisogna portare rispetto all’architetto bolognese; è per questo conflitto tra architetto e restauratore, questa ambiguità tra artista e tecnico – per il quale il rigore scientifico non ha senso al di fuori dell’invenzione e viceversa – che vedo con simpatia Alfonso Rubbiani; lui così ‘pessimo’ come esempio, contraddittorio, prepotente nei fatti e, perché no, anche ‘sovversivo’ se comparato alla realtà contemporanea in cui un ‘buon architetto’ viene considerato tale se si adopera come ‘professionista’ ubbidire alle regole imposte da commissioni e soprintendenze.
Alla luce di quanto detto sin qui, è singolare come sia proprio Palazzo Re Enzo l’edificio che fa da sfondo alla tanto discussa vicenda dell’infobox che occupa da metà luglio l’omonima piazza. Eppure è proprio dentro le sale di questo palazzo che nell’81 fu allestita la mostra dall’emblematico titolo “Alfonso Rubiani: i veri e falsi storici”; è proprio nel complesso dei palazzi Re Enzo-Podestà che si manifesta tutta la ‘fantasia restauratrice’ dell’architetto bolognese. Sfogliando le pagine dell’omonimo catalogo (a cura di F. Solmi e M. Dezzi Bardeschi, Casalecchio di Reno: Grafis, 1981) – che documentata compiutamente l’evento – troviamo alcune drammatiche fotografie e disegni d’epoca che non possono che farci ricredere sull’autenticità dei monumenti di cui andiamo tanto orgogliosi. Si scopre così come lo stesso Palazzo Re Enzo (meno di un secolo fa) sia stato oggetto di una pesante ed arbitraria operazione di ripristino da parte di Rubbiani, che ha portato alla (ri)costruzione di due trifore ad arco e al tamponamento delle finestre esistenti, all’invenzione di una merlatura gigliata (tra l’altro arbitraria per lo Zucchini) e, demolito l’edifico seicentesco che univa il palazzo con quello del Podestà, alla costruzione di una loggia di collegamento tra i due. Ma ciò che è importante per noi sono le motivazioni che gli autori del catalogo danno della politica di intervento adottata dal ‘restauratore creativo’ sull’esistente monumentale di Bologna; così si legge: “Il sogno inattuale di Rubbiani e della sua generosa Gilda di artisti ha prodotto … una improbabile città neo-medioevale, cui veniva tuttavia affidato il compito di opporsi, come unico possibile guscio resistente, alla crescente perdita d’identità conseguente a un incontrollato sviluppo urbano dominato da una ferrea legge quantitativa, senza memoria e con scarsa qualità, che finiva per travolgere, rendendola sempre pin indistinta, la città antica ed i suoi stessi simboli collettivi”. Se ne deduce così che la ‘bolognesità’, travestita da medioevalità, era per Rubbiani la ‘cura’ necessaria per tentare di mantenere lo ‘ordine’ o di contenere i danni di uno sviluppo che da lì a poco avrebbe investito non solo il territorio ma anche l’abitare sociale. I limiti del Rubbiani – come di tutti quelli della sua epoca – sta nell’essersi chiuso in un revisionismo eclettico senza però tentare di superare la storia tramite un’operare capace di interpretare con l’architettura i cambiamenti del tempo e quindi di creare nuovi simboli in cui la collettività dell’epoca poteva ritrovarsi.
Alla luce dei fatti di questi ultimi mesi, ri-vedere l’operato di Rubbiani è oggi pertinente e attuale perché – manipolando con le sue ‘stravaganze’ il cuore di Bologna – è riuscito a falsificare un luogo creando una ‘identità’ anch’essa falsata e di cui oggi, paradossalmente, a millennio oramai avviato, si crede originale, autentica e inviolabile. L’aver dimenticato o rimosso da parte della cittadinanza il recente ‘passato contraffatto’ ha messo a nudo l’indisponibilità della comunità locale di mettere in discussione il ‘fattore città’ proprio attraverso la (re)visione di questi anacronistici apparati simbolici. Questa carenza di vedute ha sicuramente penalizzato – rendendolo sterile – il dibattito attorno a ciò che oggi in fin dei conti è ‘nuovo’, è ‘altro’ e sicuramente ‘contemporaneo’. Ancora una volta “i veri e falsi storici” rimangono solo fondali di una tragedia civica che mette in scena quotidianamente una società che crede in modo patetico di ri-conoscersi nel suo passato senza però fare i conti con esso; che si dichiara ‘progressista’ ma poi si rifugia nel rassicurante ‘antico’ che spesso è solo ‘vecchio’, che a conti fatti non gli importa di nulla perché alla fine sta bene così almeno sul piano delle comodità individuali.
Chiudo con una significativa sintesi che C. Marabini fa della concezione ‘urbanistica’ del Nostro: “… la città si allarga e si rinnova. Ma per Rubbiani il mondo è vasto, infinito. Beato lui che potè ancora crederlo e battersi per una politica edilizia che affianca il nuovo al vecchio senza toccarlo. Così, infatti, si esprime: ogni generazione per edificare di nuovo, ha distrutto il più antico. perché non costruire accanto? Il mondo è grande e lo spazio non manca” (prefazione in “Rubbiani, Bologna sacra e Profana”, cit..). Ci piace immaginare che Rubbiani, se fosse ancora in vita, non solo se la riderebbe sotto i baffi nel vedere come i suoi concittadini litighino su qualcosa che non sanno – perché non conoscono la storia che gli appartiene – ma sono sicuro che non gli dispiacerebbe l’infobox così come è, magari ri-toccato alla sua ‘maniera’ con un bel giro di merlatura a coronamento de ‘le gocce’.
Nessuna civiltà può pensare se stessa se non dispone di altre società che servano da termine di confronto: un altrove nel tempo (popol-azione di ieri, popol-azione di oggi) così come un altrove nello spazio (città di ieri, città di oggi). Quanto più sapremo guardare alla storia non come una morta eredità che ci appartiene senza nostro merito; sapremo interpretarla al di fuori dei muri che noi crediamo la contengano integra ed intatta solo perché fatti di mattoni; sapremo (ri)conoscerla come una ricchezza da riconquistare giorno dopo giorno in una attenta e quotidiana autocritica; solo allora saremo nelle condizioni di sapere da dove veniamo e muoverci sicuri di sapere dove vogliamo andare.