ASCOLTARE L’ARCHITETTURA #1/C. L’architettura vista da casa
Amburgo, Parigi, Zurigo, Dublino, Londra, Miami, Tokyo, NY, …almeno per mezz’ora alla settimana possiamo visitare le principali capitali del mondo standocene comodamente seduti sulla poltrona di casa, accompagnati per mano dalle belle conduttrici dei format televisivi che ci raccontano tutto ciò che ruota attorno al “modo” del vivere contemporaneo e quindi alla “moda”. È qui che prende vita con suoni e immagini in movimento ciò di cui si è parlato nelle puntate precedenti; è qui che si consacra il design come la “soluzione” finale alle questioni della quotidianità; è qui che l’architetto entra ufficialmente a far parte della community dello star system, confondendosi tra chi pensa posate e chi invece abiti; è qui che si celebra il mondo della comunicazione, della pubblicità, della mondializzazione del gusto. E’ una mezz’ora a cavallo tra la domenica e il lunedì che corre velocemente come le immagini dei palazzi ripresi sempre dal basso verso l’alto o dal finestrino di un’automobile in corsa, il tutto accompagnato dalle stesse musiche che solitamente ascoltiamo in radio alla stessa ora. Il ritmo è febbrile anche per presentare accessori, auto, vestiti, opere o allestimenti d’arte. La città è vista sempre come un grande cantiere in divenire, dove gli abitanti corrono o non ci sono, mentre gli amministratori (urban managers) intervistati dicono di lavorare alacremente per riqualificare e riconvertire i luoghi del degrado urbano. Tra gli uni e gli altri c’è però il designer (quasi sempre messianico) che la scorsa settimana era Daniel Libeskind, stasera Philippe Starck, nella prossima puntata sarà Zaha Hadid. È qui che si alimenta l’orgoglio sciovinista “made in italy”; è qui che si istiga all’archi-turismo che riesce a far spostare miglia di pigri italiani in giro per le capitali europee solo per vedere quell’architettura (contemporanea) che a casa loro non vogliono. Qui tutto luccica, tutto è colorato, tutto è bello, tutto è design. Cercheremo in quest’occasione di indagare come la televisione pubblica e a pagamento comunica le trasformazioni delle città/società e quali effetti tutto ciò ha sull’immaginario di chi le abita.
Terzo contatto: / L’architettura vista da casa
Data: 13 Giugno 2005
Luogo: Etere / Radio Citta’ del Capo in streaming
Conduttore: Piero Santi, Curatore Programma Humus
Coordinatori:
Nicola Desiderio, Presidente Associazione/Pagina Digitale Arcomai
Matteo Agnoletto, Architetto, Ricercatore
Nicola Marzot, Architetto, Ricercatore
Ospiti:
Lorena Bari, Responsabile arte Nonsolomoda (Canale 5)
Marta Francocci, Storica dell’arte CULT, network-SKY e RAI RADIO 3
Lorena Bari. Dal 1992 giornalista TG5, Redazione Nonsolomoda. Le aree di lavoro sono quelle relative al racconto di avvenimenti legati all’arte contemporanea, all’architettura, ai luoghi con particolare attenzione alle declinazioni della cultura visuale del presente.
Marta Francocci. Storica dell’arte è stata docente di Storia dell’Arte e marketing dei Beni Culturali presso Accademie di Belle Arti e Università. E’ autrice di libri e pubblicazioni sull’arte e l’architettura. Ha lavorato presso la Comunità Europea a Bruxelles come curatrice e project manager per la realizzazione di progetti culturali. Consulente per l’edizione 2000/2001 del Premio internazionale di architettura Francesco Borromini del Comune di Roma. Autrice di programmi e servizi per la televisione. Ha curato per RAISAT ART servizi e documentari sull’architettura e l’arte e per Sky le serie “Metropolis”, “I grandi maestri dell’architettura”.e “50 Biennale Cult”. Ha curato per Radio 3 (Terzo Anello) il programma radiofonico “La città invisibile” (20 puntate), con il patrocinio del Consiglio Nazionale degli Architetti.
Matteo Agnoletto (Modena, 1972) si laurea a Venezia con Franco Purini. Ha svolto attività professionale negli studi di Renzo Piano e Jean Nouvel. Attualmente è collaboratore a contratto alla didattica presso l’Università di Bologna, Facoltà di Architettura di Cesena e segue un programma di ricerca al Dottorato di Progettazione Architettonica e Urbana al Politecnico di Milano. È capo-redattore di “Parametro” e cura le rubriche di “Arch’it” dedicate all’editoria offline. Ha pubblicato articoli su “ilSole24ore”, “Gomorra”, “Il Progetto”, “Iride”, “Materia”, “Abitare”, “Il Giornale dell’Architettura”, “D’A”. Nel 2002 ha partecipato con Cino Zucchi alla Ottava Biennale di Architettura di Venezia. In ambito progettuale ha ricevuto premi e segnalazioni in concorsi nazionali e internazionali, esponendo i propri lavori in mostre e conferenze.
Nicola Marzot. Nato nel 1965. Si laurea nella Facoltà di Architettura di Firenze. Ha conseguito il dottorato di ricerca in “Ingegneria edilizia e territoriale” presso la Facoltà di Ingegneria di Bologna. Ha insegnato presso le Facoltà di Architettura di Firenze, la Facoltà di Ingegneria di Bologna e le Università di Lund (Svezia, Facoltà di Architettura) e Tokyo (Hosei University, Facoltà di Architettura). Attualmente è ricercatore in Composizione architettonica e urbana nella Facoltà di Architettura di Ferrara e docente responsabile del “Laboratorio di Progettazione I A”. Redattore di Paesaggio Urbano e delle riviste internazionali Urban Morphology, Opera/Progetto e Rassegna. E’ consulente urbanistico dell’Osservatorio immobiliare di Nomisma S.p.a. e di OIKOS centro studi sull’abitare. Svolge attività professionale a Bologna, cotitolare dello studio PERFORMA A+U.
© arcomai l Notte televisiva 24-25 aprile 05. La conduttrice di Oltremodo (Rai 1) e un fotogramma che riprende Amburgo in Nonsolomoda (Canale 5).
ATTI
Marzot. Rispetto agli appuntamenti precedenti oggi cercheremo di fare una riflessione su due media alternativi, complementari rispetto alla carta stampata: la radio da una parte e la televisione dall’altra.
Desiderio. Nonsolomoda con il montaggio digitale (al posto di quello analogico) ha rotto con la camera fissa dando dinamicità non solo all’immagine ma anche al sonoro, che non è mai mero sottofondo ma parte integrante del medium visivo. Ciò ha permesso di poter lavorare in velocità, controllare al secondo i palinsesti televisivi, ma soprattutto lavorare in modo indipendente e con un numero ridotto di persone. Ci può raccontare in sintesi come viene realizzato un servizio sull’architettura, sull’arte sul design in giro per il mondo?
Bari. Si può cominciare parlando della produzione, della troupe con cui ci muoviamo e si gira: siamo in tre: giornalista, operatore e assistente. E’ ovvio che si inizia con già l’argomento prefissato dalla giornalista e con una scaletta di massima delle riprese preparata in redazione. Sul posto si effettuano più riprese possibili considerati i giorni di produzione. In media a ogni destinazione si dedicano tre servizi da realizzare in 4-5 giorni di riprese. Di norma c’è quello che si può definire “servizio portante”: un servizio dedicato a un evento o a un quartiere. E’ il motivo principale del nostro viaggio. A seguire ci sono altri due servizi e questi possono essere o a compimento del servizio principale oppure avere anche argomenti del tutto differenti: possono essere a esempio dedicati alla scena artistica, a una comune di artisti o a un modo di abitare. La durata di ogni servizio è di circa 8 minuti e vanno in onda separatamente in puntate diverse.
Riassumendo abbiamo circa 24 minuti di montaggio con un girato di 3 ore di media.
Desiderio. Parafrasando Pirandello “la vita o la si vive o la si scrive”. Così se si analizzano le tecniche di ripresa da voi adottate, sembra che i vostri registi vivano la città piuttosto che raccontarla/spiegarla al loro pubblico. Infatti è evidente che si privilegiano i flussi (tele-visione/comunicazione, auto o viaggi “low cost” alla RyanAir, le reti, …) rispetto ai luoghi. Non crede che questo modo di rappresentare la realtà in generale vada a scapito della riflessione su temi importanti del vivere contemporaneo?
Bari. I nostri servizi possono essere considerati come inviti: non hanno la presunzione di essere esaustivi di qualcosa. Preferiscono essere un invito ad approfondire qualcosa sul posto: con testi, libri, documentari.
Il servizio dura 7 minuti ed è vero che ci può essere un racconto di qualcosa in 7 minuti, però preferiamo considerarlo un accenno di qualcosa. Non vuol essere educativo, non vuole essere di approfondimento, è un invito, un assaggio di quello che può essere approfondito personalmente.
Marzot. Il programma al quale Lei è legata, Nonsolomoda, è stato sicuramente tra i primi a porsi il problema del just in time, cioè di un rapporto immediato, una relazione diretta con l’evento indipendentemente dal fatto che si parlasse di arte, di architettura e di design, cercando sempre una relazione molto forte con il contesto, con la città che promuoveva l’evento stesso. Da questo punto di vista può raccontare ai nostri ascoltatori, in base alla sua esperienza, quali sono stati i contesti internazionali più fertili, più creativi, più propositivi in ambito culturale e soprattutto che rapporto esiste tra questi contesti internazionali e la capacità propositiva della realtà italiana?
Bari. Il ricordo più bello che ho non è legato a un avvenimento specifico. E’ piuttosto un luogo ma è anche tutta la fatica del suo recupero: è la zona della Rhur in Germania. Una zona mineraria che ha attraversato una profonda crisi produttiva. Il governo della regione ha lavorato molto e ha trasformato questa immensa area in un percorso – anche ciclabile volendo – in cui si passa di paese in paese, visitando miniere diventate musei. Sono stati recuperati edifici minerari, fabbriche siderurgiche, fonderie. Si possono ammirare edifici in puro Bauhaus ora musei del design, altri sono diventati luoghi di intrattenimento, ristoranti, sale per concerti. Alcuni silos sono diventati piscine in cui la gente va per praticare l’immersione. Gli stagni, i fiumi, prima sporchi di carbone, sono stati puliti e trasformati in luoghi balnneabili, pubblici. Le colline di detriti sono ora installazioni d’arte, con a esempio opere di Richard Serra. Nella profondità delle miniere si possono ammirare istallazioni di opere d’arte luminosa. Questa destinazione, considerando la mia esperienza, è stata l’operazione più bella e commovente.
A mio avviso questo può essere considerate l’esempio più bello di un’operazione tra città e arte contemporanea: l’arte non è solo un luogo o una vetrina per una città, quanto invece il tentativo di una relazione tra artisti e territorio per cercare di valorizzare sia la storia di una regione così importante che l’aspetto, anche doloroso, del lavoro in miniera, dell’estrazione in profondità, della fatica fisica.
Desiderio. L’esempio da Lei citato è molto interessante. Mi viene da aggiungere che questi interventi di ri-conversione delle aree minerarie dismesse hanno comportato anche la bonifica dei territori di loro pertinenza. Ciò vuol dire che all’alto valore cultuale di queste operazioni va aggiunto anche un alto valore di tipo ambientale.
Marzot. Rimanendo invece in un ambito più locale, quale esperienza ricorda con maggior piacere nella stessa prospettiva di forte integrazione arte, architettura e urbanistica?
Bari. Sul territorio italiano ho esperienze minime, ma credo che non si possa non citare Torino. Torino secondo me sta facendo un buon lavoro di recupero di spazi, di fabbriche dismesse. Di collaborazione tra pubblico e privato e i frutti si sono visti. Il successo della città durante le Olimpiadi ne è la conferma.
Tutte le grandi, da quelle pubbliche a quelle private hanno anche un rapporto con scuole, con la didattica. Si comincia a ospitare artisti, cosa che purtroppo in Italia non è molto praticata. La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nel castello di Guarene ha creato unità abitative, laboratori in cui gli artisti potranno essere ospitati i per un certo periodo e produrre opere. Questo mi sembra un buon inizio.
Desiderio. La mostra che si è tenuta a Genova, conclusasi lo scorso febbraio, dal titolo “Arti e Architettura” è stata trattata nella vostra trasmissione?
Bari. Sì, l’ha seguito una mia collega. Anzi abbiamo seguito proprio tutto l’avvenimento di Genova durante l’anno. A Genova sono state dedicate varie puntate. Credo che se dovessimo sommare i servizi su Genova Capitale Europea della Cultura si arriverebbe a un’ora circa di materiale mandato in onda.
Desiderio. Lei crede che sia l’esempio (del genere) più interessante in questi ultimi anni in Italia?
Bari. E’ quello che viene definita trasformazione su base effimera, si usano avvenimenti a termine per approntare trasformazioni durature. Bisogna vedere cosa rimarrà, nel senso che comunque essere Capitale Europea della Cultura è una buonissima occasione per poter lavorare sulla città. Ciò che rimane sarà importante poi. Per cui vedremo quest’anno o l’anno prossimo.
Marzot. Quando Nonsolomoda nacque all’inizio degli anni ’80 ebbe sicuramente la capacità non comune di cogliere il successo non solo nel settore moda, ma più in generale, in ogni ambito culturale. Ebbe quindi la capacità di informare circa le contaminazioni tra discipline e ambiti di natura diversa. Voi ritenete che questa formula sia ancora attuale per poter spiegare, giustificare la contemporaneità o forse prevedete, magari in un futuro non troppo lontano, dei format più specializzati su definiti ambiti disciplinari come l’architettura, l’arte, il design e l’urbanistica. Ritenete in qualche modo di seguire la continuità nelle vostre radici o avete in animo di tagliare questo cordone e dare una svolta in un senso o nell’altro alla vostra attività.
Bari. Premetto che forse la riposta migliore la potrebbe dare il direttore della trasmissione. Il taglio editoriale è quello di discipline che comunicano tra loro. Non vogliamo fare del post-modernismo a tutti i costi ma c’è un travaso tra un discorso e l’altro.
Marzot. Per il momento mi sembra quindi di capire che la vostra missione sia quella di trascrivere una realtà plurima, molteplice, ibrida e fondamentalmente contaminata tra ambiti disciplinari, e quindi ritenete di proseguire in questo senso fino al momento in cui la realtà non dovrà contraddire questo trend. È un po’ questo lo spirito?
Bari. E’ questo lo spirito.
Marzot. Sempre Nonsolomoda, ma allo stesso tempo anche un programma come Cult/Sky – che avrebbe vista coinvolta nella stessa domanda Marta Francocci – ha mostrato un grande interesse nei confronti delle operazioni avviate dai più noti architetti della scena internazionale. Nello stesso tempo ricordiamo come Cult/Sky abbia dedicato diverse edizioni del proprio programma ai grandi maestri dell’architettura. Questa comunanza di approccio ci suggerisce una domanda sul ruolo di queste grandi figure dello star system architettonico internazionale. Non ritenete che in qualche modo l’associazione, in una sorta di co-branding, tra grandi operazioni di trasformazione, grandi capitali e grandi referenti della cultura architettonica, possa deformare e distorcere la comprensione dei fenomeni urbani che invece sono anche molto legati alle mutazioni, trasformazioni capillari che riguardano la realtà quotidiana, il lento fluire delle cose, lontano dai grandi clamori della scena internazionale?
Bari. Sì, non posso che essere d’accordo con Lei. Però laddove avvengono grandi trasformazioni non è superficiale affermare che ci sono anche grandi firme. Non sempre realizzano qualcosa di bello e positivo, questo è quello che succede. Però ci succede anche di andare a raccontare quelli che sono avvenimenti minimi e non necessariamente firmati. Porto qualche esempio. A New York due anni anno fa ho raccontato quello che è una delle tendenze del momento: costruire singoli edifici pensati come paesi indipendenti. Chi abita all’interno di questi edifici – che non è necessariamente firmato da noti architetti – si ritrova con tutta una serie di servizi che normalmente noi troviamo spalmati per le strade. Sono soluzioni abitative che riproducono in verticale ciò che noi frequentiamo in orizzontale. L’origine è quella della tradizione di una comune ebraica. Non a caso sono andata a filmare anche l’esempio di Amalgamated una co-op di Brooklyn. All’interno dell’edificio troviamo baby sitter, cinema, palestre, piani in comune con sale di lettura e bar in cui si organizzano serate monotematiche. Sono anche queste forme abitative. Andiamo anche a raccontare comuni di artisti come mi è capitato di fare ad Amburgo ultimamente, ma anche a Parigi e Berlino.
Marzot. Quindi potremmo definirli come fenomeni di riappropriazione spontanea dello spazio che producono arricchimento dello spazio stesso nel disinteresse più totale rispetto al progetto griffato, che vengono restituiti nei modi, nei tempi in cui effettivamente si sono mostrati alla vostra osservazione?
Bari. Sì, mi piace dire che sono esperienze che ci sono sempre state, arriva un momento in cui ce ne accorgiamo e quindi lo raccontiamo. Ci tengo a dire che questa è una nostra pecca.
Desiderio. Solitamente nei vostri programmi televisivi, ogni qualvolta vengono presentati aeroporti, stazioni, metropolitane, centri commerciali, spazi per il divertimento ed altri luoghi per la collettività, si fa riferimento alla grande famiglia dei “nonluoghi”, fortunato termine coniato dall’antropologo francese Marc Augè. Non crede che quello di “nonluoghi” sia un termine oramai sorpassato, obsoleto e inadatto a definire questi luoghi/catalizzatori della collettività che nel frattempo si stanno costruendo – se non lo hanno già fatto – una propria identità e senso di appartenenza? Non sarebbe più appropriato parlare di “iperluoghi” visto che al loro interno si possono vivere (simultaneamente) diverse “esperienze” che contribuiscono tra l’altro a creare interrelazioni sociali importanti?
Bari. Mi trova assolutamente d’accordo nel senso che comunque per quanto mi riguarda il termine di “non luogo” l’avrei usato un paio di volte appena uscito il libro, quindi parliamo di 8, 10 anni fa, adesso non ricordo proprio più. Avrei voluto proprio dire esattamente quello che Lei ha anticipato, nel senso che non me la sento proprio più di dire di questi luoghi come “non luoghi”, al contrario sono luoghi a tutti gli effetti.
Marzot. Una domanda invece più da vicino sul tema della città. Contraddicendo in qualche modo l’idea, l’ipotesi secondo la quale il concetto di globalizzazione risulterebbe associato alla crisi della città così come ancora oggi la conosciamo, lo stesso ONU ci segnala che allo stato attuale circa il 50% della popolazione mondiale vive in un contesto urbano e che questa percentuale è destinata ad aumentare nei prossimi anni fino a raggiungere un 60%. Ciò confermerebbe molto delle tesi introdotte da Saskia Sassen, famosa studiosa di fenomeni urbani contemporanei legati alla cultura del post-industriale. Voi avete dedicato ampio spazio nell’ambito di Nonsolomoda alle trasformazioni, ai progetti relativi alle grandi città, le grandi metropoli contemporanee. Tuttavia questo modello in qualche modo sembra essere però più legato ad una cultura come quella americana o asiatica. Se proiettiamo il discorso su una realtà densamente abitata ed insediata come quella europea, ci pare che il modello della metropoli in qualche modo riveli dei limiti di natura strutturarle, un grande consumo delle risorse del territorio, una struttura fortemente gerarchizzata e soprattutto una scarsa flessibilità, proprio in ragione dei fenomeni di globalizzazione ricordati in precedenza. Al contrario la cultura dei distretti urbani o delle cosiddette città in rete, ovvero di piccole realtà che implodono e che invece di aumentare la propria dimensione moltiplicano la quantità e la qualità delle relazioni sembra essere in livello più congeniale alla storia dell’Europa e in modo particolare alla realtà italiana costituita da un denso tessuto di circa 8.000 comuni. Qual è il suo giudizio su questa contrapposizione di modelli e sulla loro capacità di adattarsi anche a sollecitazioni culturali diverse?
Bari. Raccontiamo molti cambiamenti che avvengono all’estero: recuperi,concentrazioni, cambiamenti d’uso. In Italia non vedo che questo stia accadendo, a parte qualche esempio – la citata Torino e Milano con alcuni progetti, tra i quali quello di Santa Giulia che dovrebbe essere realizzato dal Gruppo Risanamento, quest’ultimo è un progetto ha a che fare con un’area milanese, di 1 Mil. e 300mq., tra la tangenziale e la futura alta velocità. Poi però i veri recuperi, la vera redistribuzione urbana di grandi o di piccoli centri li vedo all’estero. Posso portare l’esempio di Amburgo che sta recuperando tutta la zona portuale che è dentro la città a soli 800m. dalla piazza principale. Stiamo raccontando i recuperi in tutta Europa che hanno a che fare poi con il waterfront. Poi il tessuto piccolo, il tessuto culturale, parla attraverso altre traiettorie.
Desiderio. Voi siete collocati nel palinsesto televisivo italiano sempre a cavallo tra la domenica e il lunedì. Non vi penalizza andare in onda tra mezzanotte e mezzanotte e mezza?.
Bari. No, parliamo a un pubblico che è rientrato dal fine settimana, dal cinema, dal teatro, o da tutta una serie di programmi che ha visto durante la serata e decide di chiudere la domenica così, la domenica televisiva verso mezzanotte. Questo è il profilo del nostro pubblico.
Marzot. Un’ultima riflessione prendendo spunto da episodi recenti legati a Milano. Questa presenza sempre più forte, quasi una sorta di colonizzazione di architetti di chiarissima fama internazionale nella operazioni di trasformazione italiana ha suscitato in qualche modo una reazione dura da parte di alcuni esponenti della disciplina. Penso a dichiarazioni forti fatte da Vittorio Gregotti o da Italo Rota sull’esperienza della trasformazione della vecchia fiera di Milano. Secondo Lei questo atteggiamento va interpretato in termini difensivi o in qualche modo giustifica una reale diversità culturale che in qualche modo presupporrebbe la presenza di architetti locali per risolvere problemi locali?
Bari. No, non la vedo in questi termini, nel senso che non credo che l’architetto locale possa intervenire meglio sul posto di un architetto inglese o americano che sia. Vedo piuttosto il progetto al di là della firma che sia italiana o straniera, vedo un progetto che abbia a che fare con il territorio; questo sì. E lo fanno sia architetti che abitano dall’altra parte dell’emisfero che quelli che vivono nel luogo della trasformazione. E non è detto che chi abita nel luogo in oggetto abbia una visione più chiara di ciò che lo circonda.
Marzot. Quindi una cultura, diciamo, della contaminazione capace di portare elementi nuovi può avere risultati positivi; può in altri termini fertilizzare un’area che semmai si era un po’ inaridita anche dal punto di vista culturale?
Bari. Sicuramente sì.
Marzot. Dovendo fare una brevissima rassegna di quello che abbiamo sentito in queste tre puntate, mi piace ricordare come l’obiettivo che ci eravamo posti in fase di ideazione fosse quello di verificare il ruolo, l’importanza della cosiddetta cultura generalista quindi non strettamente orientata agli addetti ai lavori, ai tecnici professionisti nel produrre e comunicare un’idea alternativa, complementare dell’architettura, della città e delle contaminazioni possibili tra diversi ambiti disciplinari. Abbiamo visto come effettivamente gli stessi numeri della cultura generalista giustifichino tale capacità rispetto alle riviste specializzate . Soprattutto la quantità e la qualità di elementi che sono emersi dai temi e dai riferimenti incrociati ci pare abbia confermato l’ipotesi di partenza e cioè che la stampa non specializzata – ma la stessa radio e la televisione attenti alla contemporaneità – abbia oggi effettivamente una presa sui temi che coinvolgono tutti noi, paritetica se non addirittura in alcuni casi superiore rispetto al dibattito disciplinare, chiuso in un circuito talvolta troppo accademico, ovvero troppo lontano dal comune sentire, dalla sensibilità collettiva. Quindi ci pare che in qualche modo questo abbia giustificato in sé il successo dell’iniziativa; speriamo che ci siano in un futuro non troppo lontano altre occasioni e ovviamente cogliamo questa opportunità per ringraziare il modo particolare RCdC, Piero Santi e tutto lo staff di RCdC che in qualche modo hanno dato voce a questa nostra ipotesi e hanno permesso ai nostri autorevoli ospiti di esprimere i loro punti di vista.