In Italia ci sono ventitré facoltà di architettura. Prossima tappa i Corsi di laurea di quartiere?

ARCOMAI pubblica in anteprima l’editoriale del numero 737 (ottobre 2005) di Casabella dedicato alle “scuole” di architettura in Italia. Ringraziamo la redazione di Casabella informa per la collaborazione.

Il dato non è preciso, ma stando a quanto riferisce il sito del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur), in Italia ci sono 23 Facoltà di architettura. Le lauree specialistiche in Scienze dell’architettura e dell’ingegneria edile (secondo il linguaggio ministeriale che non ha tra i suoi fini quello di aiutare gli studenti a compiere consapevolmente le loro scelte formative, si tratta della “classe 4S”) sono 47. Vengono offerte nelle più diverse località, da Roma a Milano, da Pisa a Reggio Calabria, da Rieti a Mondovì, da Rende a Dalmine. I Corsi di laurea triennali in Scienze dell’architettura e dell’ingegneria edile (classe 4) sono 61. Le relative attività didattiche coinvolgono l’intero territorio nazionale, da Torino a Enna, da Campobasso a Udine, da Aversa a San Donà di Piave.
Questa esplosione demo-geografica ha preso piede negli ultimi anni ed è in buona misura imputabile a tre fattori. In primo luogo, all’incapacità delle università italiane di avvalersi dell’autonomia amministrativo-gestionale loro riconosciuta dal Ministero se non in termini di mera autoconservazione corporativa, ovvero di difesa di ruoli, privilegi, interessi variamente e miseramente consolidati. In secondo luogo, è il frutto della miopia dell’Amministrazione centrale dello Stato (menomazione, questa, che ha afflitto anche i ministri competenti, senza discriminazione alcuna tra progressisti e conservatori), che ha avallato e, implicitamente, incoraggiato questa prassi non opponendo alcuna resistenza alle strumentali aspirazioni di città, comunità, paesi e villaggi a fregiarsi dello status di “sede universitaria”. In terzo luogo (e qui il paradosso è di tale evidenza che vi è da domandarsi come mai sino ad ora non sia stato compiuto alcun tentativo per sottoporlo al giudizio dell’opinione pubblica), a coronamento delle logiche e dei comportamenti corporativi di cui si diceva, molte delle Facoltà, dei nuovi Corsi di laurea ecc. che si sarebbero dovuti istituire per venire incontro, è lecito supporlo, a nuove esigenze formative, per dare risposte alle dinamiche del mercato del lavoro, per contribuire alla nascita di nuove professioni, per favorire lo sviluppo di originali centri di ricerca, per assecondare il miglioramento della pratica professionale, ecc. – ebbene, la gran parte di questi Corsi di laurea sono sorti per assicurare rifugi ad insegnanti privi di ruoli, di fatto espulsi dal mercato del lavoro, esclusi dalla professione, preoccupati soltanto di godere della protezione garantita dalle riserve in cui sono stati accolti e dove, non di rado, si sono formati.
I nuovi Corsi di laurea per il 50% sono stati generati da orripilazioni, come attestano le perifrasi delle loro titolazioni (Scienze dell’Architettura [il più diffuso], Architettura delle Costruzioni, per arrivare a Progettazione dell’Architettura, dove la perifrasi diventa tautologica, anche se bisogna riconoscerle il merito di ribadire che l’architettura non è un prodotto del ciclo naturale delle stagioni, né di movimenti tellurici, che non nasce come una melanzana e non si forma come una collina). È lecito pensare che simili invenzioni abbiano preso forma da accese discussioni, nel corso delle quali gli insegnanti avrebbero dovuto dar prova della loro dedizione all’interesse comune, invece (come attestano i “nomi”) che a usi e costumi tribali. L’altro 50% dei nuovi Corsi è nato per garantire i posti di lavoro degli insegnanti di ingegneria. Scorrendone l’elenco, quando nel titolo di una laurea si incontra la parola “edile” non si sbaglia pensando che quel Corso è stato istituito per accogliere insegnanti-ingegneri, privati dei loro ruoli, perché così stabilito dal pur glaciale movimento di adeguamento delle qualifiche professionali italiane a quelle europee.
Dato lo stato delle cose, viene da chiedersi (lo impone la tautologica affermazione che si legge nel sito del Miur, secondo la quale per fare architettura bisognerebbe saper progettare) se è immaginabile che, in un paese come l’Italia, vi siano docenti di architettura in numero adeguato alla quantità delle sedi dove questa materia viene insegnata e non si sia risolta questa difficoltà riconoscendo la qualifica di docente in maniera indiscriminata, come in buona misura è avvenuto negli ultimi anni, grazie ai modi in cui le Università si sono avvalse della loro autonomia. Ma proprio l’uso che dell’autonomia è stato fatto, invece di favorire il ricambio e rinnovamento dei corpi docenti, ne ha sancito la definitiva stabilizzazione e sclerotizzazione. Data questa situazione, è divenuto ancor più impensabile attivare forme di scambio tra i mondi professionali e quelli accademici, che tanto sarebbero auspicabili per rinnovare le professioni, nel nostro paese non meno imbalsamate delle corporazioni accademiche, e stimolare il mondo dell’insegnamento e dell’apprendimento.
Queste poche righe non contengono che appunti; ben altro sarebbe lo spazio che la gravità del problema richiederebbe. Però, per comprendere come la patologia che le Facoltà di Architettura italiane denunciano sia degenerata, basta leggere il Piano strategico 2005–2015 presentato recentemente dalla Bocconi, per rendersi conto dell’abisso che separa le nostre Facoltà da ciò che sarebbe serio proporsi di fare e che, per l’università milanese, è così riassumibile: reclutare il 50% dei nuovi docenti sul mercato internazionale; non sottostare all’“egualitarismo salariale” e agli automatismi che vigono nell’università di stato per selezionare il personale docente; sviluppare la ricerca; aumentare del 35% in dieci anni gli insegnanti di ruolo; affidare il 20% del carico didattico a docenti esterni; assumere 50 docenti stranieri stabili; portare al 15% la presenza degli studenti stranieri; incrementare strutture, assistenza, programmi di formazione postlaurea, ecc.
Una volta, gli allievi più dotati delle Accademie di Parigi, Vienna, Berlino, Stoccolma, al termine degli studi venivano invitati a compiere un viaggio in Italia, dove giungevano anche i migliori autodidatti (Le Corbusier, ad esempio). Frequentavano le nostre Accademie, le città, i siti archeologici, le botteghe, le biblioteche e dai tanti “insegnanti” che così avevano modo di incontrare potevano imparare qualcosa. Il viaggio era parte essenziale per la formazione di un architetto e ancora lo è. Da noi, oggi, l’apprendimento dell’architettura è divenuto, invece, stanziale (ma non sarebbe forse più economico, oltre che salutare dal punto di vista formativo ed educativo, trasferire a spese dell’università, a Napoli, Roma, Milano o Londra gli studenti che oggi studiano architettura a Cava dei Tirreni [è soltanto un esempio], dove per loro si sono predisposte aule ma non biblioteche, tavoli ma non computer, docenti, bidelli, personale vario ecc., preferendo trattenerli a casa, per la tranquillità dei familiari e per dar lavoro ai loro docenti?).
In Cina, ai tempi del comunismo, per far fronte alle più elementari esigenze dei contadini dispersi nelle campagne, si istruivano i “medici a piedi scalzi” – una pratica formativa in loco che è stata ripresa in Italia per quanto riguarda l’architettura (ad Agrigento, San Donà di Piave, Dalmine). Attualmente, come spiega il Piano per l’Europa presentato dalla Bocconi (ma perché un simile documento esce dalla Bocconi e non dal Miur?), le cose sono cambiate rispetto ai tempi del Presidente Mao. Anche le Accademie non funzionano più come all’epoca di Piranesi. Eppure, architetti di tutto il mondo, giovani e vecchi, si ostinano a venire in Italia per guardare le nostre città, i siti archeologici, i monumenti, i musei e ora anche per costruire quartieri, musei, stazioni, case, perché i committenti italiani li preferiscono. Bisogna biasimarli? Tra un architetto formatosi a Yale e uno che ha studiato a Pomezia, tra uno che ha ottenuto una laurea in Scienze dell’architettura e della città e uno che ha frequentato l’Architectural Association School, a chi pensate un committente mediamente dotato si rivolgerà? Le scuole serie (di solito si trovano in grandi città o in campus attrezzati) possono contare sui progettisti e professionisti migliori; costoro raramente diventano “professori di ruolo”; viaggiano e insegnano sino a quando questa attività li interessa o è utile – anche per poco tempo, perché oltre ad insegnare tutti costoro sono architetti (Mies van der Rohe non aveva dubbi: per insegnarla, l’architettura bisogna saperla fare). Ma vi immaginate Jacques Herzog a insegnare a Rende, Moneo a Dalmine, Cecil Balmond spiegare come un edificio si regge in piedi ad Aversa?


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