L’equilibrio della periferia
Si è tenuta oggi pomeriggio presso la sala conferenze dell’Ordine degli Architetti PPC di Bologna la presentazione del lavoro artistico del fotografo (architetto) Gabriele Basilico al quale ha fatto seguito un dibattito tra lui e gli architetti presenti. Oscar Ferrai ha documentato/commentato in modo sintetico/attento i principali temi trattati.
© arcomai l Alessandro Marata (pesidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Bologna), Piero Orlandi (responsabile del settore “Programmazione e sviluppo dell’attività edilizia” della Regione E-R) e Gabriele Basilico durante il dibattito a chiusura della presentazione. Basilico illustra agli architetti bolognesi il suo lavoro.
Il suo itinerario visivo che qui è stato raccontato è un lungo percorso che comincia a svolgersi nei primi anni ‘80 su ispirazione – come lui stesso ha affermato – dei tedeschi Bernard e Hilla Becher (rinomati maestri dell’altrettanto rinomata scuola di Dusseldorf). Con “Ritratti di fabbriche” inizia un’indagine sulle fabbriche della sua città, una sorta di ricerca di un territorio, quello periferico, fino a quel tempo ancora poco indagato. E’ anche il lavoro che lo traghetta verso la grande avventura francese della Datar: prima tra le tante indagini fotografiche territoriali europee in cui Basilico è l’unico fotografo italiano.
Nella presentazione Basilico ha mostrato una sequenza di immagini, tratte in prevalenza dal suo ultimo libro Scattered city, in cui “fianco a fianco” sulla stessa “doppia pagina” convivono Bilbao e Brescia piuttosto che Roma e Bruxelles o Napoli e Barcellona (ipotizziamo una sequenza poiché non compaiono didascalie nel libro). L’occhio di Basilico sorvola a bassa quota queste periferie restituendoci una composta e rigorosa immagine in elegante bianco e nero di una periferia mondiale, senza luogo e senza qualità se non quella fotografica.
Guardare al dito o alla luna? E’ proprio sull’ambiguità-equivoco tra l’oggetto e la sua rappresentazione che si gioca buona parte dell’incontro tra il fotografo e gli architetti che guardano al contenuto dell’immagine e si interrogano e lo interrogano su quali spazi della città debbano essere riqualificati, sui luoghi non luoghi, sulle attività di pianificazione urbana ecc..
Ma l’autore stabilisce chiari i confini e, chiamandosi fuori da problematiche urbane che non lo riguardano, dichiara esplicitamente che il suo è un progetto artistico e come tale va guardato con occhio attento e consapevole che la sua non è la realtà ma la sua realtà, o testualmente “l’illusione della realtà”. Il suo sapiente sguardo infatti – come è anche stato sottolineato da un intervento in sala – è in equilibrio.
La ricerca dell’equilibrio egli riconosce è alla base della sua “misurazione visiva” degli spazi. L’occhio fotografico va alla ricerca misurata del suo punto di vista – che non è certamente quello del fruitore quotidiano dello stesso spazio. E’ lo spazio in quanto tale, come alternanza di pieni e vuoti, bianchi e grigi che interessa all’autore.
Precisa ancora una volta che le figure umane non compaiono perché offrono altre informazioni o distrazione rispetto alla costruzione fotografica dello spazio. Insiste sulla ricerca ostinata del punto di vista, il suo punto di vista, in cui piazzare cavalletto e banco ottico per comporre con estrema precisione e mestiere le linee di forza e le luci riflesse da cavalcavia, torri, condomini piazze pali e cartelli e tutto quanto concorre alla equilibrata composizione dell’immagine che Basilico ci offre di un mondo che di equilibrio sembra averne ben poco.
Geografia a bassa quota Guardare le figure, quindi come figure, sembra essere il suggerimento che Basilico ci insegna – lasciando le problematiche urbanistiche ai professionisti del mestiere – insistendo sul fatto che le sue immagini restituiscono il “senso del luogo connesso al senso dello sguardo”. Le sue fotografie ci restituiscono una sorta di carta geografica ad altezza cavalcavia, i cui punti di vista inconsueti e decentrati vanno a rivelare quello che l’occhio distratto e in movimento guarda ma non vede, mentre il suo “tempo lungo della visione” fatto dalle immagini contemplative e rigorose di matrice ottocentesca – come egli ama ripetere – finisce per rendere irriconoscibile Milano al milanese (sua affermazione) e ad uniformare visivamente ed in modo certamente estetizzante Beirut a Parigi o le Havre ad Ancona in un unico e forte percorso visivo di periferia.