Contro l’invasione del 20X20
Promotore principale dell’iniziativa è stato Assopiastrelle (oltre al Comune ed Università di Bologna e Bolognafiere) e non ha mancato di far sentire la sua voce il suo Presidente, Alfonso Panzani. “Perché, architetto, non progetta un bello e grande edificio fatto di piastrelle di ceramica?” è stata la domanda “interessata” posta insistentemente agli illustri convenuti, e la risposta ricevuta non poteva che essere ovviamente una sola, anche se declinata in diverso modo. L’architetto californiano ha esortato gli industriali della ceramica ad investire più in ricerca ed innovazione del prodotto, cercando, per esempio, di produrre una piastrella con “doppia curvatura”, per stimolare nuovi impieghi progettuali. L’architetto romano ha esortato gli industriali della ceramica ad investire più in ricerca ed innovazione del prodotto, cercando, per esempio, di produrre una piastrella dalla superficie “plurisfaccettata”, non estrusa ma pressata.
Il prodotto ceramico è per sua definizione seriale e standardizzato, è un prodotto dei grandi numeri e della grande diffusione: del formato liscio 20×20 si trova ogni sfumatura possibile di colore e finitura di superficie ed a prezzi concorrenziali in ogni parte del mondo. La diffusione di massa a scala planetaria lo ha in breve imposto su molti materiali di finitura, sia tradizionali che innovativi. Difficile quindi pensare che la ricerca architettonica d’avanguardia possa essere interessata all’impiego della piastrella di ceramica: la rincorsa della novità assoluta, del pezzo unico, dell’effetto specialissimo, alla personalizzazione più esclusiva, poco conciliano con l’”uguale per tutti”. Da questo “dialogo impossibile” sono emerse per fortuna due interessanti esposizioni sullo stato dell’arte in Italia e nel mondo.
Thom Mayne, fondatore dello studio Morphosis di Santa Monica e fresco vincitore del prestigioso Pritzker Architecture Prize 2005, con il titolo esplicito “Continuities of the incomplete” ha premesso che, al giorno d’oggi, la tesi evoluzionistica di C. Darwin è oramai superata perché ha avuto il sopravvento l’innovazione artificiosa, la manipolazione biologica. Quindi, è la ricerca del nuovo, del mai visto, del trasmutato, ad incentrare tutta la sua carriera. Il modello di metropoli orizzontale di Los Angeles, dove la tradizione convive con stili di vita nuovi a formare una vera cultura del globale, porta ad attirare l’interesse sulle interruzioni, sulle imperfezioni, sui frammenti di realtà, fino a farne materiale di costruzione del progetto d’architettura: è stato così anche per F. Gehry, lavorando negli stessi identici posti, e forse non è del tutto una casualità. Il progetto diviene così la definizione di quella realtà, al di là d’ogni finzione o fissazione della storia o di sue possibili interpretazioni, privilegiando l’invenzione, anche attraverso la memoria della storia. In un modello sociale tanto sfaccettato e magmatico, la traduzione del mondo avviene tramite l’individualità e l’istintività primordiale: il progetto deve cercare di tradurre quella cultura complessa e contestualizzarla in tutti i modi possibili.
Oggi però la finzione coincide spesso con la realtà, assistiamo al potenziamento ed al cambiamento della natura, all’impiego di forze alterative, prevale insomma l’artificiosità, tanto che l’uso della realtà virtuale del computer è diventata uno strumento per esplorare le risorse del progetto. Tornando all’esperienza pratica di Mayne, la sua idea principale è sempre stata quella di “completare l’incompleto” e manipolare il paesaggio, lavorando molto sulla superficie, quale massima espressione del concetto di postmodernità, come superficie mediatica: l’architettura si propone così come paesaggio artificiale, capace d’inglobare tutto ciò che le sta intorno. Operando secondo queste logiche, l’edificio ambisce a far parte dell’involucro della terra, della sua crosta in quanto superficie artificiale: l’edificio diviene così soggetto di molteplici interpretazioni, sia sul piano iconico che ambientale. Invece che lavorare sui volumi bisognerebbe quindi dispiegarne le superfici, cercare diversi rapporti tra superfici per creare volumi ricchi di spazi intermedi, proporre superfici che accolgono-assorbono informazioni, collegando l’orizzontale con il verticale, proprio come in un paesaggio. Con questo atteggiamento, l’involucro esterno può rispondere armonicamente ad esigenze ambientali ed energetiche, operando con più involucri e creando spessori attivi.
Nei diffusi scenari della frammentazione urbana, oramai frequenti anche alle nostre latitudini, è quindi vitale collegarsi con la diversità come segno d’apertura mentale: l’architettura proposta in molti edifici da Mayne appare come il collage d’elementi distinti, sembra prevalere l’irrazionalità, la differenziazione piuttosto che la composizione. La molteplicità delle fonti da cui attingere è sinonimo di volontà di dialogo, di “multilaterismo”, a fronte del rischio d’appiattimento informativo ed unilaterismo insito nell’era della postmodernità. In fondo, la storia della città, anche la nostra europea, è soprattutto aggregazione d’elementi nel tempo, di cose distinte che fanno un formidabile insieme: bisogna per cui sì tutelare la storia ma credere anche con uguale forza nel presente, perché è questo che valorizza soprattutto il passato, bisogna accantonare quindi la nostalgia dell’idealizzazione, perché per qualsiasi edificio importa solo ciò che rappresenta oggi.
Come architetti, ordiniamo e creiamo una coerenza, anche quando molti altri non la vedono ancora: una sfida dell’attualità è creare occasioni per fare degli spazi pubblici, in una società che si rifugia sempre più nell’individualismo, e la crescente scala dimensionale degli interventi, tendente al gigantismo, dovrebbe favorire questa ricerca. L’uniformità e l’universalità del primo modernismo, proteso a fornire modelli singolari, oggi è superato dalla continua rincorsa della variabilità, della ricchezza della complessità, fino ad arrivare a creare delle forzate intersezioni, dei veri e propri “accidenti”, collisioni tra parti costruttive, generando con ciò luoghi assai più dinamici e sfaccettati, dotati d’identità multiple. Questi progetti che rompono la scala tradizionale dell’edificio, in cerca di un’altra dimensione, sempre sospesi in spazi intermedi, si protendono nell’intorno manipolandolo il più possibile: è il terreno che deve assomigliare sempre più all’edificio e non già il contrario! In sintesi, per Mayne, compito dell’architetto è operare nel segno della ragione e l’architettura è l’intersezione tra l’atto creativo ed il sociale, per cui l’architettura dev’essere innanzi tutto “resistenza” ad ogni forma di generalizzazione (come l’invasione del 20×20).
Massimiliano Fuksas, con il titolo “lost in translation 19”, pone l’attenzione sull’alleanza pragmatica in corso tra la speculazione immobiliare e la creatività, che afferma il modello anglosassone da tempo collaudato con successo: in questo sodalizio, è ovviamente la quantità a prevalere sulla qualità, a soccombere è l’emozionalità sotto l’egida del profitto. Parlare dell’architettura come di un concetto della democrazia, che appartiene alla collettività che l’esprime, può sembrare quasi ovvio, ma di fatto non si parla quasi mai dell’architettura, se non quando piccole parti di questa scompaiono, e solo in maniera scandalistica. Per Fuksas, l’architettura è la rappresentazione simbolica della società, per cui l’architetto è parte critica della società: per svolgere bene il suo ruolo tanto importante, non si deve occupare perciò d’architettura, non dev’essere cioè distratto dall’autoreferenzialità, per essere soprattutto efficace coscienza critica. Ed all’etica dell’architetto è stata dedicata anche una recente Biennale quando ne è stato il curatore.
Fare architettura di qualità obbliga l’assunzione di rischi (del cambiamento), ad iniziare da parte della committenza: stante la situazione politica italiana, può essere pertanto questa una motivazione della difficoltà nella progettazione pubblica. Potrebbe essere anche per questo motivo che i politici amministratori hanno da un po’ di tempo scoperto l’architettura “griffata”, una volta capito l’interesse che è in grado di suscitare: l’Italia è diventata pertanto terreno di conquista dello “star system” internazionale anche per questo, ma è anche vero che hanno trovato un gran vuoto in cui manovrare, con scarsissima concorrenza locale, e lui l’ha aggirata rientrando trionfante dall’estero. Fuksas ha parlato in maniera molto “schietta” del malessere che attanaglia l’architettura in Italia e gli architetti italiani in particolar modo: la sua “denuncia” aperta ha suonato anche in parte come un’autocritica ed in parte come manifestazione di massima affermazione, d’assoluta indipendenza professionale, che solo il successo può garantire.