Stazioni e aeroporti: Non luoghi o Nuovi luoghi?
Nonostante una cospicua letteratura, sulla scia della suggestiva definizione di Marc Augè, continui a definire le grandi infrastrutture della mobilità come “nonluoghi”, oggi esse risultano essere complessi oggetti urbani che non trovano risoluzione nel neologismo proposto dall’antropologo francese. La velocità degli scambi globali, il fenomeno del pendolarismo, i flussi migratori stanno conferendo alle stazioni e agli aeroporti un ruolo cruciale. Spogliate dalla semplice funzione di luoghi di transito, le infrastrutture della mobilità sono, seppur in maniera diversa, veri e propri microsistemi di città specializzate che racchiudono al loro interno tutto ciò che possa soddisfare le esigenze dei loro utenti.
La vasta ed eterogenea moltitudine che vi abita temporaneamente – per l’attesa della coincidenza, per il check in, per stazionarci in assenza di una dimora alternativa o per il semplice piacere di osservare l’andirivieni di persone e mezzi – ha reso necessario un ripensamento delle funzioni e delle prerogative sia delle stazioni che degli aeroporti. Dagli Stati Uniti all’Europa, l’intento dei progettisti è di trasformare i grandi nodi di scambio in parti esplicite della città per evitare che rimangano episodi isolati, scollati dal contesto. Ed è proprio cercando di assecondare questo obiettivo che le stazioni di ultima generazione, dalla South Station di Boston a quella di Roma Termini, sono state ripensate non più come semplici spazi da attraversare velocemente per evitare l’incontro con il diverso da noi, ma come nuove piazze postmoderne in cui poter bighellonare tra i negozi, i bar, i ristoranti, le aree espositive esattamente come bighellonava il flanueur tra i passage della Parigi ottocentesca. In questo senso le stazioni ripropongono quella che è sempre stata la loro doppia anima di luoghi della città ma già anche luoghi del viaggio, di piazza di margine ma anche di piazza monumentale.
Se le stazioni sono luoghi porosi della città capaci di raccogliere diverse tribù che altrimenti non entrerebbero in contatto reciproco, lo stesso non si può affermare per gli aeroporti. Più simili a cittadelle medioevali fortificate, dopo l’11 settembre, essi si presentano come la sintesi perfetta, controllata ed iperefficente della città “vera” di cui diventano un surrogato. Alberghi, shopping mall, aree per il relax, sale conferenze, piazze con specchi d’acqua e fontane, stazioni del treno e della metro direttamente all’interno dello scalo, sono solo alcune delle strutture proprie della città di cui oggi anche gli aeroporti si compongono. A questo proposito è interessante osservare la scelta di molti conferenzieri e buisnessman di tenere gli incontri di lavoro all’interno dello scalo piuttosto che nella città. E’ qui, infatti, che senza correre alcun rischio, senza il pericolo di un’inevitabile perdita di tempo dovuta al traffico cittadino, è possibile aver a disposizione un distillato sicuro e costantemente vigilato della città.
Il Panopticon di Bentham o il Grande Fratello di Orwell che sembravano prefigurare scenari temibili in cui i cittadini sarebbero stati tenuti sotto controllo da sistemi di sicurezza, oggi non solo sembrano essere ben assimilati ma anzi ricercati. Gli aeroporti, nuove “città ad aria condizionata” dove il cittadino/passeggero può muoversi in maniera sicura tra le varie strutture che li compongono, sembrano far eco alle “città di quarzo” descritte da Mike Davis. Le città-fortezze di Los Angeles, chiuse all’interno di mura, “scansionate” da telecamere a circuito chiuso, controllate da guardie armate che regolano l’entrate e le uscite di cittadini e ospiti, sembrano suggerire un chiaro riferimento al modello di sicurezza delle città aeroportuali.
Alla luce di queste considerazioni credo che non sia più corretto definire le stazioni e gli aeroporti come nonluoghi, semplici spazi di transito che stimolano l’azione ma non l’interazione. Oggi le grande infrastrutture del trasporto sono luoghi a tutti gli effetti di una nuova società che alla stanzialità predilige il movimento, che all’imprevedibile della città preferisce il prevedibile dell’area protetta.
Elisa Manelli
BIBLIOGRAFIA
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Elisa Manelli, nata nel 1977, si è laureata in architettura nel 2005. Attualmente lavora come architetto a Bologna e collabora presso la cattedra di Sociologia Urbana della Facoltà di architettura dell’Università di Firenze. Un estratto della sua tesi di laurea è in corso di pubblicazione sulla rivista “Sociologia urbana e rurale” edita da FrancoAngeli.