Controcopia

Alla conclusione della rassegna di architettura Le città Ideali (Carpi, settembre-ottobre 2006), la tavola rotonda con i professori dei workshop vede ospite Marco Casamonti, studio Archea di Firenze, direttore della rivista Area. Chiamato a parlare dello stato dell’arte dell’architettura in Italia, dopo un chiaro ed efficace excursus sulla storia recente, racconta della necessità dell’architetto italiano di oggi di uscire dal nostro Paese, alla ricerca di un futuro che per l’architettura sembra essersi spostato altrove e dell’apertura, per questo motivo, di una sede dello studio Archea a Pechino. Casamonti riferisce di come dopo poco tempo, accanto al suo, abbia aperto un altro studio,  cinese, copiato dal suo; di un progetto Archea per uno stadio per 30.000 posti vincitore di un concorso, realizzato da altri a breve distanza grazie all’uso “improprio” del loro modello tridimensionale dato a una società cinese di renderizzazione; di un numero della rivista “Area” sulla Cina scansionato e riprodotto come nuovo libro da un editore locale.

Le vicende narrate ci parlano di una cultura totalmente diversa dalla nostra, che vede nella copia e nella riproduzione una normalità che sconcerta noi occidentali. Diritti di autore, proprietà intellettuale, falsificazione, plagio sono concetti che in Cina sembrano non esistere. E forse proprio qui vale la pena di fermarsi a riflettere su come dati per noi certi e fondanti il nostro modo di vivere e di percepire le cose, altrove non solo non siano scontati, ma non ci siano; operando una sospensione di giudizio morale o esulando per un attimo dagli scenari di possibili catastrofi economiche che tutto ciò potrebbe comportare al mondo occidentale, mi chiedo: se l’architettura è, più di altre arti, riproducibile o producibile più o meno correttamente (fedelmente) da un progetto, è sempre sbagliato costruire un progetto decontestualizzandolo nello spazio e nel tempo? Lo scenario di una Cina fatta di copie delle più famose architetture occidentali contemporanee è in un qualche modo affascinante…(La loro necessità ora è quella di costruire, non di avere primati; mentre il nostro principio di fedeltà all’originalità e all’autore ci fa spesso costruire progetti invecchiati di vent’anni). A questo proposito in un suo articolo Andrea Branzi un anno fa diceva: “La Cina (…) fornisce la testimonianza di come la civiltà più antica del mondo si sia sviluppata senza accedere all’etica del progetto e dell’innovazione, ma operando attraverso la logica della copia, come infinita ripetizione di archetipi cui aggiungere una lenta ottimizzazione, una progressiva evoluzione di modelli storici consolidati…” (Costruire e tessere, in Disegno Industriale, 15/05).

Le nostre scuole di architettura ci insegnano come il progetto debba nascere dalla “necessità” e dalla ”unicità” di un luogo; come l’arte sia espressione del proprio tempo, della propria realtà. Ma il copiare è un atteggiamento naturale ed istintivo anche per noi. L’arte occidentale nasce in Grecia come mimesi, copia, riproduzione della Natura (l’artista è infatti disprezzato, in quanto crea il falso, e considerato negativamente nella Repubblica di Platone). L’architettura che si nasconde/mimetizza è atteggiamento da sempre esistito. Adriano copia e riproduce nella sua villa a Tivoli architetture viste nel mondo e oggi tutto il mondo ammira questo “unicum”. Piranesi s’inventa una città nuova mettendo assieme vecchie architetture… Nella storia dell’arte e dell’architettura la copia è stata la normalità, lo strumento principe dell’insegnamento e della trasmissione (mi viene in mente a questo proposito Giulio Romano che, in gioventù, riprodusse dipinti di Raffaello così perfettamente che oggi abbiamo dubbi di attribuzione per alcune di essi). L’architettura associa al valore estetico-culturale proprio delle altre altri quello utilitario: se funziona è giusto riprodurla?

L’architettura fino all’Ottocento si è basata su tipologie consolidate e tramandate dalla storia, modelli da riprodurre con piccoli adattamenti. Le case coloniche emiliane si sono costruite per secoli prendendo a modelli progetti del Detti; così facendo nella copia –e rielaborazione- la nostra cultura ha tramandato un sapere, affinato tecnologie, concesso a tutti la possibilità di costruire le proprie case, su “progetti tipo” tramandati a costo zero e verificati da esperienza nei secoli; in epoca fascista si sono edificate stazioni, case del Fascio, edifici pubblici riprodotti pressoché uguali in varie città d’Italia e all’estero. In epoca liberty (e non solo) il committente sceglieva il villino da catalogo… Le mode hanno sempre ripreso, copiato, (banalizzato) un processo culturale riproducendone la parte più esteriore. Venezia è stata ricostruita in America. E quanto all’ Italia in miniatura (di Rimini), agli outlet che costruiamo ora, mi chiedo se non facciano scandalo solo perché copia di qualcosa del passato (i cui autori non possono rivendicare diritti) o senza un unico autore, dunque nessuno possa legalmente “far causa”; o, ancora, rimango perplessa sulla commercializzazione a larga scala di tegole finto-invecchiate, vernici che riproducono effetti rame ossidato o altri recenti invenzioni (magari anche brevettate…!) basate proprio sulla falsificazione (dunque culturalmente accettata?) dell’effetto del tempo e dei materiali e sulle possibilità di perfetta riproducibilità che l’informatica recentemente dà; dunque mi viene da pensare che la Cina sia molto più (che ci piaccia o no) culturalmente all’avanguardia di noi, vicina, cioè, senza freni di scrupoli morali, culturali, o sovrastrutture economiche, a quello che sarà, inevitabilmente (purtroppo?), il nostro futuro.

Dunque mi chiedo se oggi possa avere senso per l’Europa (l’Occidente) copiare la Cina, sforzandosi di vedere qualcosa di buono nell’atteggiamento “culturale” prima che economico della copia, forse non sempre e comunque da condannare; abbandonare, cioè, gli eccessi a cui si è arrivati con le grandi firme della nostra industria della moda e del design; mi stupisco di come all’architettura occidentale, proprio quando la realtà del nostro mondo e, forse, il nostro futuro, sul quale dovrebbe lavorare l’arte è  l’industrializzazione, la serializzazione, la facilità di riproduzione, il tentativo di clonazione anche biologico, si richieda, invece, innovazione continua, singolarità, espressività; l’attesa è per la spettacolarità; il fatto intellettuale, inventivo, è più importante del saper costruire; l’architettura non è più fatto costruttivo. L’arte non è più gestuale, materia, ma concettuale. Forse per questo è facile la copia… e l’originale non è più così importante. La pratica “democratica” dell’arte per tutti della Pop art arriverà anche all’architettura? Non conta più l’oggetto, ma il germe dell’idea e i suoi sviluppi. E questi sono impossibili da tutelare nella loro autenticità. Forse, però, si potrebbe permettere, proprio per questo, una qualità architettonica superiore per tutti; perché gli architetti migliori non sono chiamati a progettare “edifici tipo” per la vasta diffusione? Modelli residenziali, centri commerciali o altro? Le idee migliori sono per sempre “firmate”, proprietà privata, o appartengono a tutti, diventando patrimonio dell’Umanità?


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