Unseen Hands: Le mani invisibili degli ingegneri
© V&A Museum l Humber Bridge. Ponte sospeso (1973-81) Ingegnere strutturale: Freeman Fox & Partners (ora Hyder Consulting).
C’e’ una piccola stanza a Londra allestita per celebrare un importante anniversario. È la numero 128a del V&A (Victoria and Albert Museum), il più grande museo d’arte e design del mondo. Qui, una mostra dal poetico titolo Unseen Hands racconta il lavoro, a volte geniale e spesso sconosciuto, prodotto dalle menti degli ingegneri strutturali di tutto il mondo, virtualmente uniti nell’IstructE (The Institution of Structural Engineers), lo storico istituto con sede a Londra che quest’anno compie un secolo di vita, internazionalmente riconosciuto per le competenze dei suoi ventiduemila membri sparsi in ben centocinque paesi.
L’esposizione organizzata, in collaborazione con l’IstructE, dal V&A e dal RIBA-Trust (Royal Institute of British Architects), è stata curata da David Littlefield, il quale racconta ambizioni e conquiste strutturali di alcuni tra i più noti edifici realizzati dal 1908 a oggi, con l’ausilio di modelli, fotografie, disegni originali e video. Il materiale esposto è diviso in tre categorie: il grande spazio coperto, il ponte, la torre. Opere come la Sala del Popolo a Wroclaw (Polonia, 1911-13), il ponte Salginatobel a Graubunden (Svizzera, 1929-30), l’Empire State Building di New York (1030-31) e, più recentemente, il Water Cube di Pechino (2008), il Royal Victoria Dock Bridge a Londra (1995-98) e la torre Burj Dubai negli Emirati Arabi Uniti (in via di completamento) sono solo alcuni dei più significativi esempi selezionati per mostrare le imprese compiute dalle “mani invisibili” degli ingegneri.
Sfogliando il piccolo catalogo tascabile, in omaggio, è possibile ripercorrere “il secolo delle strutture” decennio dopo decennio, ognuno dei quali caratterizzato da tre o quattro edifici magistrali. Tra questi riconosciamo il rigore umanista del nostro Nervi nell’intervento a Torino Esposizioni, del 1949, l’eleganza effimera dello Skylon di Londra (1951), il gioco fantascientifico dell’Atomium di Bruxells (1958), il minimalismo simbolico della Spire di Dublino (2002-2003). Sono tutte sfide calcolate, capaci di liberare le costruzioni dal peso della gravità con conseguenti effetti emozionali: straniamento, astrazione e stupore. È questo il fascino dell’ingegneria, la poesia delle costruzioni ad arte. Opere quali l’Eden Project in Cornovaglia (1999-2001) o l’ascensore per barche Falkirk Wheel in Scozia (2002) si impongono sull’ambiente come strumenti matematici per manipolare il paesaggio e regalare a chi le osserva l’esperienza estetica della natura civilizzata, dell’artificialità, che è poi l’arte dell’ingegneria.
In questa mostra è di scena la monumentalità e i plastici a grande scala del Viadotto Millau in Francia (2001-04) e della torre di Dubai, posti all’ingresso della sala, ne anticipano finalità e contenuti. La bellezza ordinaria delle strutture minori è assente. La ricorrenza sembra troppo importante per dare loro spazio. Il 2008 è l’anno del completamento della torre che ha battuto tutti i records mondiali, la Burj, e chi l’ha progettata afferma con vanto che avrebbe potuto essere ancora più alta. Autocelebrazione dell’intelligenza o istigazione del mondo tecnologico a spingersi verso l’impossibile, andando sempre più in alto? Ingegno al servizio della follia o atto di forza del business per rendere reale un’astrazione finanziaria? Il Manhattanismo diventato mito col Delirious New York di Rem Koolhaas (1978), sembra materializzarsi nel masterplan elaborato da OMA per il Waterfront City di Dubai, la cui densità urbana ha trovato ispirazione proprio in Manhattan. Allora come adesso, a New York come a Dubai, si tratta di un mondo interamente fabbricato dall’uomo, che vive dentro la sua fantasia. Cosi’ il grattacielo del deserto sfuma gradualmente, piano dopo piano, smaterializzandosi per poi confondersi con il cielo e trasformare la natura in super-natura.
Bruno Zevi, parlando della Tour Eiffel, affermava che quest’opera di ingnegneria è in realtà mera architettura, giacchè i maestosi archi di ferro che contribuiscono a donarle quell’unica e inimitabile silhouette sono scarichi, mentre ogni sforzo è sopportato dalle gigantesche gambe divaricate dell’antenna. Forse proprio per questo tuttavia, dopo circa centoventi anni la torre porta ancora il nome di chi l’ha progettata.
All’evento espositivo fa da corredo una serie di incontri con gli strutturisti di alcune delle opere esposte: una buona occasione per conoscere di persona le menti di questi progetti ad opera d’arte.
Unseen Hands al Victoria & Albert Museum fino al 17 settembre.
© arcomai l Viste dell’allestimento.