Home/Away: La casa britannica fatta nel ‘mainland’ e’ piu’ bella di quella di casa
© arcomai l Il Padiglione della Gran Bretagna alla XI Biennale.
Esiste un detto popolare – non solo in Italia – che afferma come le regole siano fatte per essere infrante. A questa Biennale di Architettura dal titolo Out There, Architecture Beyond Building, molti curatori nazionali hanno aderito al tema della mostra – scelto da Aron Betshy, direttore di questa XIª edizione – mentre alcuni altri no. Tra questi “disubbedienti” c’è’ il responsabile artistico del Padiglione della Gran Bretagna Ellis Woodman che, con l’allestimento Home/Away: Five British architects Building Housing in Europe, dribbla in modo diplomatico l’assist – lanciato da Betshy – sulla “architettura oltre il costruire”, presentando il lavoro di un gruppo di cinque architetti che “indica, nonostante tutte le difficoltà della situazione britannica, come sia ancora possibile offrire spunti interessanti ad altri paesi”. L’esposizione propone, pertanto, una selezione di lavori ideati sia in Gran Bretagna che all’estero dai cinque prescelti, offrendo la possibilità di analizzare le differenze culturali in gioco nella progettazione fino ad esaminare “… i vincoli sociali ed economici all’interno dei quali sono emerse le diverse culture europee in materia di edilizia abitativa, e in particolare si propone di far conoscere le condizioni sperimentali all’interno delle quali viene prodotta l’edilizia abitativa in Gran Bretagna”.
La mostra e’ stata disegnata da Laurance Benner insieme a Jon Hares e Michael Manot, mentre la parte grafica e’ stata gestita dal fotografo John Davies. Gli obiettivi di questo padiglione sono quelli di raccontare: lo sviluppo tipologico dell’housing britannico dal 1870 ad oggi; il lavoro degli architetti che hanno preso in mano la sfida dopo il vuoto generazionale successivo alla fase della ricostruzione terminata negli anni ‘70; e il tentativo di dialogo tra le recenti esperienze in materia di edilizia tra il Regno Unito e l’Europa continentale. Metre i primi due punti sono supportati dal catalogo/timeline della mostra (The development of housing in Britan 1870-2008), elaborato da Emily Greeves, il terzo obiettivo e’ tradotto dalla esposizione delle opere realizzate dai cinque architetti/studi di architettura, scelti dal curatore, che dovrebbero rappresentare le idee nuove in materia di edilizia e progetto sociale. Ciascuno di questi studi di architettura e’ attualmente all’opera in un altro paese europeo: Sergison Bates in Svizzera, Witherford Watson Mann in Belgio, de Rijke Marsh Morgan in Norvegia, Tony Fretton in Danimarca e Maccreanor Lavington nei Paesi Bassi.
Le ultime edizioni della biennale si sono contraddistinte per l’uso efficace di diagrammi grafici che spesso, pero’, fanno fatica a spiegare le dinamiche che stanno dietro ad essi. Nella sala centrale del padiglione in esame si trovano due tra gli schemi – esposti ai Giardini – a più’ alto effetto e che coinvolgono indirettamente altri ambiti europei. Entrambi in forma di pannelli giganti in scala 1:1 – ed accompagnati da didascalie/titoli simili a quelli di opere d’arte (How much space does 10.000 Euros buy? e Avarage room size in square meters) – mostrano in modo critico i primati negativi dell’edilizia britannica che e’ nella media europea la più’ costosa, pur avendo l’unita’ abitativa piu’ piccola d’Europa. Perche’ in Inghilterra un immobile di nuova costruzione e’ più’ caro di uno polacco, pur essendo costruttivamente di qualità’ inferiore? Quali sono le tecnologie di realizzazione adottate? Chi abita i nuovi developments? Quali sono le politiche del governo del territorio? Quali gli strumenti urbanistici? Cosa c’è dietro alla cultura tutta britannica del “my house is my castle”? In che modo i developpers esercitano il loro potere, e quale effetto ciò’ avrà’ sul settore edilizio del Regno Unito? Dove e’ la sperimentazione nei complessi residenziali esposti? Un padiglione che suscita tante domande e da’ poche risposte, se non quella che gli architetti britannici fanno belle case in terre d’oltre Manica, dimostra come tra la direzione generale della Biennale e il curatore del Padiglione ci sia stato un missunderstanding, un malinteso che ha fatto perdere una buona occasione per fare il punto sul sull’ambiente abitato in ambito architettonico, sociale, commerciale e legislativo di un paese che, in passato, ha segnato la cultura europea dell’edilizia residenziale.
Woodman, nel parlare della crisi dell’edilizia abitativa che attraversa il Regno Unito dagli anni ’80 ad oggi, afferma: “La cultura dello sviluppo edilizio e’ guidata essenzialmente dal mercato che si e’ sviluppato in Gran Bretagna negli ultimi trent’anni e ciò’ e’ in netto contrasto con quella dell’Europa continentale” […]. La Gran Bretagna si trova in effetti di fronte a una crisi degli alloggi tra le più gravi in Europa: è stato calcolato che entro il 2022 ci sarà un deficit di oltre un milione di case a meno che i livelli della produzione attuale non crescano in maniera rilevante”. Va bene Ellis, ma se sei cosi’ attento a queste questioni, come spieghi ad un pubblico allargato le cause del collasso del prezzo delle proprietà’, la crisi del mercato dei mutui, le difficoltà’ dei costruttori e la carenza qualitativa delle abitazioni, il tutto in rapportato alle dinamiche sociali contemporanee. Questi sono i temi “beyond building”; e il problema della casa oggi e’ veramente una questione che va al di la’ dell’edifico.
Dal curatore ci si sarebbe aspettato qualcosa di più’, visto che e’ vice direttore del settimanale di architettura Building Design, un magazine che ogni giorno tocca con mano lo stato dell’arte dell’edilizia britannica, gestendo ed alimentato a volte dibattiti anche aspri come quello che (per certi versi avvincente) ci ha accompagnato per quasi tutto il 2008: la campagna per il salvataggio e recupero del complesso residenziale anni ’60 del Robin Wood Gardens a Poplar (Londra), per la quale la redazione ha attivato una raccolta firme capace di mobilitare migliaia di professionisti. Le esperienze britanniche in campo dell’housing hanno influenzato la “cultura della casa” in Europa piu’ di quanto gli edifici contemporanei dei cinque architetti, esposti in mostra, faranno nei paesi dove hanno realizzato le loro opere. Raccontare un secolo di edilizia, evitando di affrontare le questioni delicate su come intervenire sull’enorme patrimonio edilizio esistente, rende le recenti esperienze qui esposte non solo autoreferenziali ma difficili da collocare in un contesto extra-locale come auspicato dalla direzione artistica del padiglione.
Il messaggio del padiglione – dal titolo velatamente polemico e al tempo stesso opportunistico – sembra voler dire: “Si’, abbiamo dei problemi ma siamo in grado di fare belle case sia Londra come ad Amsterdam o a Copenhagen.” La direzione di un evento come quello della Biennale dovrebbe far rispettare le linee guida che danno significato ad una manifestazione internazionale come quella di Venezia, nella quale e’ proprio il confronto tra le diverse esperienze, tradotte con libertà’ di linguaggio ma riferite ad un tema comune, che fa dell’evento un’occasione unica di dibattito e riflessione. Bisognerebbe adottare clausole ferree per chi e’ invitato alla rassegna: come in un concorso di progettazione (in questo caso ad inviti): se i partecipanti non sviluppano il tema della gara rispettando parametri e obiettivi richiesti nel bando sono fuori e impossibilitati a reclamare il previsto rimborso spese.
© arcomai l Il Padiglione della Gran Bretagna alla XI Biennale.