Bologna 9×12: il ‘fattore umano’ 3 metri sopra Piazza Maggiore
E’ stata inaugurata il 12 maggio presso il centro espositivo de Le Torri dell’Acqua di Budrio (Bologna) la mostra dal tiolo Bologna noveperdodici – fotografie del centro storico. L’iniziativa – nata da un progetto di Oscar Ferrari – e’ documentata da un catalogo (Bologna 9×12) che raccoglie il lavoro svolto dagli studenti del biennio specialistico in fotografia – curato da Ferrari presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna – nel periodo accademico maggio-giugno 2008. Convinti che le riflessioni che emergono da questa ricerca fotografica possano valere non solo per Bologna ma anche per altre città’ italiane, il Direttore di arcomai.it Nicola Desiderio ha discusso insieme a Oscar Ferrari (fotografo nonché’ redattore della pagina digitale) i contenuti dell’iniziativa culturale ponendogli alcune domande su: l’idea del progetto e l’attività’ didattica esercitata in Accademia; i “punti di vista” storici di Bologna e il vostro “punto di vista rialzato”; la “teatralità’ della città’ storica” e il significato di centro storico oggi; il “fattore uomo” nella fotografia contemporanea.
© oscar ferrari_arcomai
Nicola Desiderio Ci puoi spiegare il titolo del libro che, per chi non e’ un addetto ai lavori, puo’ sembrare enigmatico?
Oscar Ferrari Il titolo onestamente lo dobbiamo ad Alfredo Ranieri, uno degli studenti partecipanti che ha anche curato la grafica del libro. Le spiegazioni sono due: 9×12 era il vecchio formato delle lastre fotografiche che oggi si sono uniformate all’americano 4×5 pollici e si chiamano 10×12. Nove erano i partecipanti al corso e 12 le antiche porte di Bologna quindi possiamo anche leggere 9 studenti per Bologna… è davvero un po’ enigmatico.
N.D. In che cosa consiste la tecnica del banco ottico?
O.F. In parole molto semplici e per non dilungarmi in tecnicismi da specialisti, possiamo dire che si tratta concettualmente della macchina fotografica “primitiva” in cui una piastra porta obiettivo ed una porta negativo sono collegate da un soffietto che rende possibili i movimenti di entrambi gli elementi. Questo consente correzioni sulla prospettiva e questo apparecchio è specifico per la foto di architettura. Visivamente possiamo anche configurarlo come le antiche macchine fotografiche che si utilizzavano sotto il panno nero.
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N.D. Come e’ venuta l’idea di questo progetto, e come i tuoi studenti hanno affrontato il tema? O.F. È stato un po’ come chiudere un’epoca. Mi spiego meglio. Nel decennio 1990-2000 ma anche dopo, la fotografia contemporanea ha rivolto il suo sguardo principalmente alle periferie e alle zone marginali urbane per raccontare il fenomeno della grande urbanizzazione selvaggia che ha coinvolto in maniera omogenea ogni città d’Italia. Così il fotografo si è rivolto ad enfatizzare o denunciare (questo non mi è chiaro) capannoni industriali e cavalcavia percorrendo un territorio “nuovo” che fino a 20 anni prima non esisteva e quindi poteva rappresentare un vero campo di esplorazione e teorizzazione. Fatto sta che da oltre 20 anni nessuno si è più rivolto al centro storico, lasciando questo ambiente “troppo visto” al turista o al fotoamatore. La mia idea quindi è stata prima di tutto una sfida con me stesso, mi sono chiesto come avrei affrontato il centro storico della città che conosco da 40 anni, fuori da ogni teorizzazione sugli sviluppi urbani contemporanei. Piazza Maggiore o Piazza Verdi sono più o meno le stesse da almeno 200 anni e non contengono elementi così dissonanti da dovere denunciare… Gli studenti mi hanno seguito con entusiasmo! In particolare erano anche molto affascinati dalle POLAROID utilizzate col dorso 10×12, oggi ormai fuori produzione, che ci consentivano di vedere immediatamente il risultato degli scatti. Una specie di digitale ante litteram.
N.D. Mi sembra che le Torri dell’Acqua di Budrio si presti bene ad iniziative espositive. Ci dici come e’ venuta l’idea di fare la mostra li’? O.F. L’idea è del collega Daniele Vincenzi dopo che quattro delle stesse foto sono state ospitate sullo stand dell’Ordine degli Architetti alla Fiera del Restauro di Ferrara. Le Torri d’Acqua di Budrio sono un interessante spazio espositivo ad una ventina di chilometri da Bologna. Lo spazio è stato inaugurato circa un anno fa con una mostra fotografica di Gabriele Basilico, sui lavori di restauro delle stesse, ad opera dell’architetto Andrea Oliva. La struttura, parte dell’acquedotto cittadino, è stata riconvertita in spazio espositivo e per spettacoli. Quando la mostra fu proposta da Vincenzi, trovo’ subito interesse da parte dell’ufficio che gestisce le attività’ di questo spazio. Credo che la struttura si presti molto bene ad iniziative di questo tipo.
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vostro “punto di vista rialzato” fa sembrare la scena urbana diversa. Come lo spieghi? O.F. Perché è inconsueto! Noi siamo abituati a vedere il mondo dall’altezza dei nostri occhi, circa un metro e mezzo di altezza, ognuno di noi quando sale su una torre, un belvedere o qualunque cosa elevi il proprio sguardo prova un senso di stupore e immediatamente scatta una fotografia al panorama che vede. Io ho voluto provare a “miniaturizzare” questo senso di stupore rendendolo trasportabile. Ho voluto verificare se anche ad una altezza minima di circa 3 metri potesse funzionare questo senso di straniamento cercando poi di poterlo trasportare ovunque. Inizialmente pensavo di fare le foto da alcune finestre del centro storico poi ho capito che dovevo avere io una “finestra” che fosse trasportabile ovunque e non dipendesse da posizioni fisse, o non sempre disponibili, così nasce l’idea della scala.
N.D. Nel catalogo racconti come la città’ di Bologna sia stata rappresentata dai pittori vedutisti (in epoca barocca) e dai fotografi in tempi più’ recenti. Come i vedutisti costruivano la teatralità’ della città’, e come i fotografi l’hanno in qualche modo modificata? O.F. Delle vedute settecentesche, di Bologna ma non solo, mi affascina l’aspetto teatrale delle scene dipinte in cui una moltitudine di omini si trovano ad animare infinite scene di vita quotidiana davanti a ricchi fondali architettonici. Forse è proprio l’aspetto teatrale in se ad affascinarmi, la città come fondale perfettamente integrato con la vita che si svolge davanti ad esso. In sostanza credo che i pittori del tempo cercassero di rappresentare il bello della città. I fotografi contemporanei si sono sempre più allontanati dal bello per andare ad indagare quegli aspetti molto spesso legati al degrado e alle problematiche del vivere contemporaneo incontrati tra periferie immigrati e viadotti… In altre parole il fotografo ha più spesso ricoperto il ruolo di sociologo o antropologo rifugiandosi spesso dietro “concettualismi” arditi e producendo immagini dalla difficile lettura anziché riscoprire ciò che di bello le città ancora contengono.
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N.D. Secondo te la citta’ cosiddetta “storica” – oggi contemporaneizzata – dove mostra il suo aspetto teatrale? Non credi che questa teatralita’ abbia in se’ un non so che di inquietante, dato che edifici e spazi pubblici un tempo pensati per ospitare famiglie ed attivita’ artigianali sono oggi occupate da banche, uffici e negozi; tutte attivita’ che rendono la citta’ un po’ finta?
O.F. Infatti mi piace la contrapposizione tra questi due elementi assonanti e dissonanti allo stesso tempo che sono le architettture e la vita che entro ed intorno ad esse si svolge.
Se ad esempio in un dipinto del Canaletto gli edifici veneziani contengono in maniera omogenea tutto ciò che attorno ad esse si svolge: il mercato, le barche e le stesse figure umane vestite in tema col contesto, oggi mi piace guardare alla città storica come contenitore di attività contemporanee. Non voglio parlare degli elementi fortemente stridenti e discutibili (certi mostri architettonici) che la città contemporanea ha prodotto altrimenti sarei andato a fotografare altre strade di periferia, ma è proprio il pensiero che S.Petronio o Plazzo d’Accursio che hanno fatto da sfondo per l’incoronazione di Carlo V nel 1530, oggi -immutati- fanno da sfondo ad un quotidiano fatto di tavolini da bar e vetrine di banche. Nulla di epico o particolarmente devastante certamente ma è proprio questa quotidianità che si snoda sui fondali storici che fa apparire la città più finta e quindi teatrale. Il Palazzo dei Banchi o Dei Notai sono entrati nel nostro quotidiano e non ci stupisce che ospitino Tabaccheria, Bar e Benetton…
Tutto questo però non lo dico con spirito critico nel senso che ben venga questa capacità di trasformazione della città storica, non penso di certo ad un centro storico con gli alabardieri medievali di guardia alle porte! Trovo invece che un edificio rinascimentale o medievale, fotografato in maniera opportuna, a evidenziare il suo carattere scenografico sia un tema interesante dal punto di vista fotografico e urbanistico.
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N.D. Riguardo al lavoro dei fotografi che hanno lavorato su Bologna hai citato l’impronta – dico io “politica” – che Monti ha impresso ad una stagione importante della storia della città’ moderna. Qual’era l’immagine che all’epoca si voleva dare della città’, e il perché? Cosa e’ rimasto – secondo te – di quell’aspirazione? O.F. Non voglio entrare in polemica con Monti tanto meno con le politiche bolognesi anni ’70, ma mi sembra che quelle di Monti fossero foto-utopie. Si è rappresentato il centro storico come ambiente “imbalsamato” senza auto e cartelli tolti per l’occasione. Fatte le foto a ferragosto neanche una figura umana anima le vie del centro. Una immagine che restituiva l’architettura del centro ma non l’immagine della città. Secondo me la città non è fatta di pietra ma di relazioni umane che si svolgono al suo interno. Comprese le auto in seconda fila…
N.D. Credi che il fotografo abbia oggi il potere di veicolare una immagine “col copyright” capace di promuovere un ritratto “politico” o commercialmente attraente della città’? Per Bologna ne avrebbe ancora senso? O.F. Credo di no. Non esistono più i fotografi di regime che cancellavano le cose o le persone scomode. Oggi ognuno è fotografo e può pubblicare una immagine: se cerchi foto di Bologna su flikr ce ne sono quasi trecentomila (potrei dire una foto per abitante) e quindi ci sono trecentomila Bologna… Poi non si fanno più libri così (come Monti) ambiziosi.
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N.D. La presenza della figura umana e’ una delle principali caratteristiche che distinguono il tuo modo di fare fotografia. Ciò’ che personalmente mi lascia sempre esterrefatto davanti ad una tua foto e’ la sensazione che che le persone riprese galleggino sul vuoto al punto da rendere il contesto, in cui si trovano a muoversi, astratto, alterato, ed artefatto. A volte sembra trovarsi di fronte a quelle elaborazioni al computer che anche se “fatte ad arte”, con effetti simili a quelli che la fotografia può’ dare, danno a chi le guarda un senso di irrealtà’. Come spieghi questo sentimento? Inoltre, le persone ospitate nelle tue foto sembrano posizionate secondo la logica millimetrica di un regista cinematografico. E’ ciò’ che tu vuoi ottenere? O.F. Probabilmente qui entra in campo la mia formazione da architetto. Ho disegnato poco ma guardato moltissimi progetti di architettura in cui lo spazio progettato è animato da figurine eleganti sempre al posto giusto. Nei rendering non vedi mai il barbone sulla panchina o qualcuno vestito male. C’è sempre la donna in tailleur al telefonino e la coppia di manager con la 24 ore. In generale il progettista inserisce nel rendering l’utente ideale del suo progetto, lasciando fuori ogni elemento di disturbo. La realtà non è esattamente la stessa e la città fortunatamente non è vissuta solamente in giacca e cravatta. Nelle mie fotografie la figura umana non è una presenza “animata” nel senso che non ha un’anima, non la guardi negli occhi e cerchi di penetrare i suoi pensieri o il suo malessere. I miei omini sono parte del paesaggio urbano, come gli omini che venivano inseriti dai pittori di bottega all’interno delle vedute. Cerco di togliere loro ogni peso dovuto all’esistenza del vivere urbano, non indago i loro drammi, e questi in cambio si dispongono automaticamente e quasi senza peso, all’interno dell’inquadratura componendo immagini in cui la gravità sembra avere un valore diverso in un continuo processo di alleggerimento. Questo non so spiegarlo in maniera molto scientifica ma trovo che quando guardo dietro il vetro della macchina si ricrea un ordine in cui sembra che ogni figura umana si metta in posa ad animare la scena urbana come in una veduta contemporanea. I miei omini non sono finti come quelli dei rendering ma neanche animati dalla drammaticità di quelli presenti nelle immagini di alcuni fotoreporter: le mie sono figure quotidiane composte da una buona dose di leggerezza…o almeno è così che le voglio vedere. Quando fotografo, nel vetro non vedo tutto ciò che succede nella scena che si svolge davanti a me. Quando mi torna il negativo dal laboratorio allora scopro che lì c’è uno che prende il sole o una coppia che si bacia che non avevo visto…forse loro mi hanno visto e si sono messi al posto giusto! Magia della fotografia.
N.D. Avete pensato di sviluppare questo progetto anche ad altre città’ emiliane? Può’ questo “punto di vista rialzato” diventare in futuro un nuovo occhio da vedutista? O.F. Più che in altre città emiliane che essendo storiche si equivalgono in senso visivo a Bologna, mi piacerebbe affrontare questo modo di ripresa in una città assolutamente contemporanea. Magari di recente progettazione. In cui elementi assonanti e dissonanti potrebbero essere diversi. Un po’ come ridisegnarla con dei rendering reali….In particolare penso ad alcuni disegni di Will Alsop. Come saranno in realtà fotografati a tre metri d’altezza?
© oscar ferrari_arcomai
Hanno partecipato al workshop curato da Oscar Ferrari all’interno del biennio specialistico in fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna gli studenti:
Sara Agutoli – Roberta Cavallari
Caterina Curzola – Iside Montanari
Cristina Musiani – Alfredo Ranieri
Pamela Straccia – Vittorianna Suriano