Strategie di non finito

“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari…”
Eugenio Montale

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© giancarlo mazzanti I Parco Biblioteca di Spagna a Medelin (Colombia, 2007).

Ho avuto il piacere di ascoltare Giancarlo Mazzanti all’interno di Festarch 2011, a Perugia. Mi hanno particolarmente colpita alcuni punti della sua filosofia progettuale, l’esposizione nitida e consequenziale di questa, le immagini ed i filmati di alcune recenti architetture realizzate, opere pubbliche colte nel loro utilizzo, abitate, divenute subito riferimenti importanti per la città. Dai video emerge il senso della vita comune, l’intesa fra l’architettura e chi vi abita. Colpisce una spontanea “naturalità” del viverle da parte della gente. Mazzanti ci dice che l’architettura è anche atto mentale, che c’è una parte immateriale che è altrettanto importante di quella costruita. E’ importante che la gente che abita le sue architetture riesca ad identificarsi, a sentirla propria. Fra i concetti che mi hanno maggiormente interessata, quello di non finito applicato al progetto di architettura. Il non finito è energia potenziale, presente nell’opera ma non cristallizzata in una forma univoca, traccia, idea, domanda aperta al dialogo, possibilità di trasformazione, flessibilità, adattabilità, mutevolezza nel tempo, idea di durata, di vita dell’architettura.

Da tempo studio e condivido l’atteggiamento ed il tentativo di pensare l’architettura come ad un progetto aperto, ma nella pratica del costruire non è facile focalizzarne le modalità; spesso questa possibilità viene ridotta, nel progetto, all’idea di modularità, oppure, all’architettura senza progetto, senza architetti. A questo proposito ci dice Francesco Venezia: “Comunemente si fa coincidere l’elaborazione di qualsiasi progetto con l’abilità ad evitare gli imprevisti, assorbendoli già nell’idea iniziale e facendoli, perciò, tacere. E’ possibile, invece, “preparare il terreno” a questi imprevisti, lasciare un margine di tolleranza al progetto, una “vita propria” all’architettura, un’apertura al “divenire”, talvolta sorprendente ed incerto degli oggetti, al caso ? …”

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© giancarlo mazzanti I Stadio Giochi Sudamericani, 2010.

Forse si conserva davvero solo ciò che sa trasformarsi e riadattarsi, non quello che rimane rigidamente – ma solo apparentemente – uguale a se stesso; non ho mai creduto nei progetti “intoccabili”, ma nell’architettura che resista al tempo e alle trasformazioni. Penso, anzi, che proprio l’accidentale, la realtà del costruire, il tempo e l’unicità delle vicende storiche attraversate possano conferire al progetto (divenuto architettura “fisica”, realtà) quel valore di riconoscibilità, singolarità, carattere di luogo, secondo Il concetto di “genius loci” caro a Norberg Schulz. Nel passato il più delle volte, mentre si lavorava con continuità sul costruito, si procedeva ad un continuo cambiamento. Vedo nel tempo trascorso, nella storia di un edificio quel “surplus” di valore rispetto a quello stesso progetto perfettamente ricostruito. Il valore sta proprio nella imperfezione, nell’irregolarità, nella variazione rispetto l’idea, nella trasformazione d’uso. E’ giusto completare, a distanza di anni e dopo impreviste vicissitudini, un progetto per “fedeltà” ad esso a tutti i costi? La presunta volontà di un autore, peraltro ferma ad un momento della sua vita, deve sempre essere assunta quale riferimento principale e assoluta garanzia di un processo? Come si possono riutilizzare le architetture rimaste interrotte?

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© giancarlo mazzanti I Scuola a Bogota’ (Colombia, 2005).

L’architettura di Mazzanti indaga sul limite fra architettura e progetto, fra progetto ed imposizione, su quell’architettura che sembra dotata di una “vita propria” che sfugge al progetto, sul rapporto fra architettura e tempo. Introduce nel progetto l’imprevisto, l’imponderabile. Quando un’architettura diventa più vasta dell’idea che l’ha generata, diventa “altro”? Fra le strategie per arrivare a pensare ad un’opera aperta, Mazzanti individua quella di moltiplicare l’uso: ci dice di non pensare mai all’architettura mono-funzione. La forma deve essere già adatta anche per un altro utilizzo. Gli oggetti (e le costruzioni) non si esauriscono in se stessi né nell’uso principale alla loro nascita. “L’architettura deve agire creando vincoli, mescolando ambiti, producendo effetti su diverse sfere: materiale, sociale, nel pensiero,…” Nell’interazione con l’uomo, Mazzanti racconta di cercare la casualita’, il moltiplicare la complessità e contraddizione. Ci dice di valutare l’architettura per quello che fa, non quello che è; che il progetto debba intenderla, prima che materia, costruzione, azione. Architettura, dunque, non come figura, fisicità di un momento, ma potenzialità (non finito); l’architettura pensata come forma compiuta si può copiare, diventa banale, non apre all’immaginazione, alla trasformazione… Trovo che le immagini finite, completate, siano come l’enunciato di un teorema senza dimostrazione. C’è in esse, appunto, il distacco di qualcosa che non è completamente nostro, che non riusciamo a conoscere a fondo. Così anche Mazzanti non crede nell’architettura contemplativa, ma in quella attiva, nella partecipazione del fruitore. L’idea di edificio come oggetto d’arte, osservato da un utente esperto e passivo non gli appartiene. Un’architettura contemplativa riafferma soltanto l’autorità dell’architetto e svaluta l’utente.

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© giancarlo mazzanti I Biblioteca San Cristobal + Felipe Mesa a Medelin (Colombia, 2009).

La sua architettura non è solo pensata per gli uomini, ma anche per il territorio, fatto di animali, piante, cose inanimate. Il mondo è costituito partendo da sistemi di organizzazione di materiale organico, inorganico, topografico, paesaggistico, meccanico, cibernetico, ecc. che si estendono oltre l’umano, e con questo interagiscono. L’uomo non è solo. Non può pensarsi isolato dall’ambiente. Questo paragone ci permette di trasferire le proprietà di un sistema di organizzazione materiale (organico e inorganico) all’architettura; non come clone, ma come meccanismo di costruzione di spazio e materia architettonica attuante. L’idea è trasferire le condizioni, materiali, (campioni di organizzazione) fisiche (strutture) e rapporti (processi vitali) affinché  l’architettura operi come uno scambiatore  sociale. Lo studio Mazzanti cerca condizioni ambientali che amplifichino le percezioni e intensifichino i rapporti del corpo con la natura, non solo attraverso la vista. Il valore dell’ oggetto e dello spazio architettonico non è solo costruzione fisica da contemplare ed osservare, ma deve stimolare un sistema di percezioni fisiche e ambientali, come umidità, caldo, freddo, luminosità, ecc.

Altra strategia per generare il non finito è l’idea di geometria di crescita. Ma non solo, banalmente, la crescita modulare: Mazzanti si ispira a varie modalità di crescita studiando la Natura, la sua architettura ricorda la crescita di cellule, il frattale… Individua forme concettualmente uguali ma che sviluppano architetture sempre diverse; che sperimenta in almeno tre modalità: 1) Fasce e moirè – crescita che segue una o più direzionalità (es: Stadio Giochi Sudamericani, 2010); 2) Moduli e sistemi adattativi – crescita nell’idea degli anelli di una catena (es: Scuola Gerado Molina, 2005); 3) Connettività incompiute, ramificazioni – crescita che segue l’idea della ramificazione degli alberi o delle vene (es: Biblioteca San Cristobal, 2009 con Felipe Mesa)

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© giancarlo mazzanti I Padiglione Verde Piazza Maggiore a Medelin (Colombia, 2007).

Così l’utlizzo dei diagrammi e’ per Mazzanti un metodo di lavoro. E’ da lui usato come strategia, DNA del progetto, non composizione, non schema impositivo. Il diagramma è una struttura grafica di pensiero associata ad una procedura, ad un comportamento del sistema; è usato dallo studio come un catalogo di istruzioni che definiscono i dati fisici, i rapporti, i programmi, l’intensità, e perciò qualificano e definiscono le azioni, la forma in cui si opera. Come apertura alla trasformazione e non chiusura nella forma fissa. Diagramma come intelligenza formale di adattamento. Non c’è la forma finale a priori, ma I’idea di sistemi adattativi, incompiuti. Edifici pensati con fasi di crescita, per parti. La sua è un’architettura che ammette cambiamenti, incidenti, la possibilità di essere continuata da altri.

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© giancarlo mazzanti I Schema concettuale diagrammi di crescita: in orizzontale l’evoluzione da idea diagrammatica a studio della parte, a possibilità di adattamento e variazione, alla configurazione finale del progetto, con rappresentazione renderizzata; in verticale tipologie dei modelli di crescita.

NOTE:

(1)La mia Tesi di Dottorato è titolata: Sul non finito in Architettura, Dipartimento di progettazione, sez. Disegno, Università degli Studi di Firenze, dicembre 1999. (2)  Ed ancora: “Nella vita seguiamo due diversi impulsi. L’uno è l’impulso all’abbandono, …al naturale cambiamento delle cose. L’altro è l’impulso al controllo, a controllare la Natura attraverso geometria e misura …In architettura bisogna concepire una battaglia fra questi due impulsi. C’è una specie di opposizione fra geometria e scorrere della vita”. (3) Sul rapporto fra crescita e forma, mi sembra importante citare il contributo del saggio di D’Arcy Thompson.


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