Per Glauco Gresleri la città e’ una questione di giustizia

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© arcomai I Glauco Gresleri, racconta il percorso della rivista Parametro in occasione della presentazione della mostra allestita a Palazzo dell’Archiginnasio nella primavera del 2006.

E’ con grande dolore che ieri sono venuto a sapere della scomparsa dell’architetto Glauco Gresleri, Ci ha lasciato all’età di 86 anni la notte del 15 Dicembre 2015. Ho appreso della triste notizia leggendo un articolo commemorativo pubblicato in una newsletter de Il Giornale dell’Architettura, che mi era sfuggita perché recapitatami ad un account a cui accedo solo occasionalmente. Una svista che fino a poche ore fa mi ha credere che egli fosse ancora fra noi. Unica magra consolazione rispetto ad una perdita incommensurabile sia sul piano personale che per il mondo dell’architettura, in un ambito che va oltre quello della sua città d’origine. Il fatto di non essere in Italia – e non aver potuto dare il mio ultimo saluto a Glauco – rende questo mio sentimento di sconforto ancora più pesante.

Era l’estate del 2003, quando lo contattai via telefono per invitarlo a partecipare ad un ciclo di conferenze, organizzato dalla mia (sconosciuta) associazione culturale Arcomai, per discutere del “Futuro della città”. Non ci eravamo mai conosciuti prima, anche se abitiamo a 100 metri di distanza. Misteri di Bologna. Lo andai a trovare nel suo studio in via Borgo Nuovo a pochi muniti dalle Due Torri. Gli illustrai le intenzioni e contenuti dell’iniziativa; e lui accetto’. Da quel momento e’ iniziata una frequentazione “infrequente”, che mi piace lo stesso considerare amicizia e che mi ha portato a dare il mio modesto contributo all’organizzazione della mostra sulla rivista Parametro, allestita presso il cortile di Palazzo dell’Archiginnasio nella primavera del 2006 (Vedi: Dopo 35 anni (in 261 numeri) Parametro ha ancora molto da dire). L’evento, alla cui inaugurazione dell’allestimento, preceduto dalla lectio magistralis del celebre architetto americano Peter Eisenman, ha contribuito a riportare per alcine settimane il capoluogo emiliano ai ranghi di una capitale (europea) della cultura che si rispetti.

Quando 10 anni fa lasciai Bologna per iniziare un percorso che mi ha portato fino in Asia, ogni qualvolta tornavo a casa ero solito andarlo a visitare, piombando in studio senza preavviso. Un atto di maleducazione che lui non me lo ha mai fatto pesare. La prima domanda che mi faceva era “…in quale parte del mondo sei finito?” In uno di questi incontri nel 2010 mi disse che la rivista Parametro (fondata nel 1970) aveva chiuso i battetti, senza celare pero’ un profondo rammarico per una vicenda che (ai miei occhi) si era consumata in modo irriguardoso nei confronti di un gruppo di persone che per quattro decenni hanno contribuito con quel “monumentale” editoriale ad arricchire la conoscenza dell’architettura ed urbanistica nel nostro Paese.

Era sempre disponibile anche se perennamene dedito al suo lavoro che, come voi sapete, non era solo quello di architetto. Glauco, infatti, e’ fondatore non solo di Parametro ma anche delle riviste “Chiesa e Quartiere” (1955), “Inarcos” (1967) e “Frames” (1984). L’immagine indelebile che ho di lui e’ in piedi davanti al tecnigrafo a disegnare, o seduto alla macchina da scrivere intento a chiudere editoriali o tessere corrispondenze con architetti di tutto il mondo. Due pratiche delicatissime e per questo, oggi, sorpassate. Due strumenti del lavoro ad alta componente di rischio che richiedono concentrazione, conoscenza e dedizione.

Credo che lui avesse un rapporto distaccato con le nuove tecnologie per motivi non solo generazionali, anche se il suo studio di progettazione e’ sempre stato aggiornato grazie anche alle professionalità dei suoi due figli architetti, Roberto e Lorenzo. Ricordo che la sera prima di una conferenza che avevamo organizzato al Quartiere Santo Stefano, per discutere sul destino dell’Area Sta.Ve.Co, nel trasportare la presentazione finale – editata in powerpoint – dal computer alla mia unita’ esterna gli feci presente, mentre lo schermo mostrava il passaggio dei dati da un’unita’ all’altra, che l’operazione avrebbe impiegato un po’ di tempo poiché il file era piuttosto grande, Allora lui mi suggeri’ di avvicinare le due cartelle gialle in modo da ridurre il tempo di traslazione. Racconto questo episodio perché in realtà lui non aveva bisogno di presentazioni tanto meno di immagini. Inoltre il grande senso di umorismo che lo distingueva rendeva ogni conversazione unica e stimolante. E’ la nostra generazione costruita su strumenti digitali, slides & images che ha bisogno di supporti, di colori, di slogans ad affetto. Quando lui iniziava a parlare, tu potevi chiudere gli occhi e cominciare ad osservare oltre le immagini, a vedere ciò di cui non ti eri mai accorto, a rimettere insieme i pezzi di un mondo che credevi di conoscere. Si entrava in trance e si perdeva il senso del tempo.

In quell’occasione Glauco rinnovo’ la sua idea di abbattere l’edificio dell’ex Pirotecnico (l’Arsenale) su viale Panzacchi, abbandonato dall’Esercito nel 2003. Sebbene quel complesso demaniale fosse stato vincolato dall’allora soprintendente Arch. Garzillo – perché oramai “over 50” – il nostro era convinto che se ne potesse fare a meno. La sua demolizione avrebbe spalancato un varco d’accesso verso la collina, permettendo cosi’ alla città di riappropriarsi di quella “anima naturale” da decenni tagliata fuori dalla struttura militare. Inoltre tale operazione – se opportunamente valorizzata – avrebbe potuto diventare un volano turistico per un capoluogo di regione solitamente “attraversato” per raggiungere altre mete famose d’Italia. Un’operazione urbanisticamente coraggiosa che solo un’amministrazione di ampie vendute – e non condizionata da un’opinione pubblica in ostaggio di una bolognesita‘ che ormai da molte tempo ha perso quello storico smalto progressista che la distingueva – avrebbe saputo comprenderne le potenzialità. Allo stato, mi pare che poco di concreto sia stato fatto per valorizzare quell’area, se non posizionando un autovelox killer che ti distoglie definitivamente da una visione laterale (panoramica) della città.

L’ultima volta che abbiamo parlato fu nel settembre dell’anno scorso quando, appena tornato da Hong Kong, mi presentai senza appuntamento nel nuovo studio di Via Santo Stefano. Il caso ha voluto che arrivassi qualche minuto prima che Glauco incontrasse il fratello Giuliano, il Prof. Raffaele Mazzanti e l’Arch. Pier Luigi Cervellati venuti a discutere (per l’appunto) delle vicende dell’Area Sta.Ve.Co. Tutti “ragazzini over 80” con ancora una grande voglia di fare. Prima di lasciare la riunione Glauco mi espose le ragioni per le quali si stava perdendo un’altra grande occasione per fare di quell’area una occasione di riscossa urbana per una chiusa all’angolo. Ancora una volta rimasi colpito dalla sua passione, dalla lucidità, dalla tenacia. Un ricordo che porterò indelebile per sempre.

Per lui Bologna poteva e doveva aspirare ad essere una città di livello internazionale. E perché no?! Lui con il fratello Giuliano avevano giovanissimi instaurato rapporti personali con in grandi maestri del XX secolo: Le Corbusier, Breuer, Tange, Quaroni, Michelucci e altri. Memorabile il viaggio dei Gresleri nel 1957 (a bordo di una FIAT 600), attraverso un’Europa ancora divisa dalla “cortina di ferro”, per incontrare Alvar Aalto nella sua casa di Helsinki e recapitargli di persona la lettera del Cardinale Giacomo Lercaro con la quale si invitava l’architetto finlandese a progettare la Chiesa di Riola. Quando incontrate il Prof. Giuliano chiedetegli di farvi raccontare le drammatiche ore trascorse al chek-point di Berlino Est per accertamenti.

Come lo conoscevo io, Glauco disprezza la mediocrità che ha ingessato Bologna negli ultimi quattro decenni. “Il vorrei ma non posso” di una città importante cosi’ vicina dall’essere “modernità” di riferimento a livello internazionale; ma cosi’ lontana dal diventarlo. Eppure lui ha sempre convinto del bisogno di non abbassare la guardia, di alzare sempre il tiro. Mai sentito parlare male di un collega, mai un commento volgare o irriverente nei confronti dei limiti di “vedute” dei dirigenti locali. Sembrava distaccato da chiacchiere e pettegolezzi; di sicuro scambiava le sue opinioni più personali solo con coloro a lui vicini. Un vero gentiluomo.

Ricordo che una sera al ritorno da una conferenza mi racconto’ che per la sua tesi di laurea progetto’ una struttura penitenziaria. Un tema ancora oggi di estrema attualità per il quale possiamo facilmente affermare che, anche per questo, Glauco era un uomo avanti 50 anni rispetto alle banalità del “comune pensare”. L’architettura come mezzo per affrontare il problemi al di la’ della rettorica e dell’inettitudine di chi dovrebbe prendere le decisioni, uno strumento per tutelare la dignità anche di chi ha sbagliato, una certezza per consolidare la città come luogo della giustizia sociale.

Durante le nostre conversazioni ho sviluppato l’opinione che l’architettura sia come la giustizia, una nobile arte che pero’ non esiste. Il processo progettuale – come quello giudiziario – aiuta ad avvicinarsi il più possibile a ciò che e’ legittimo, senza pero’ accertare in assoluto la “verità”, anche quando l’edificio e’ terminato e la sentenza pronunciata. L’intelligenza nel progettare, nel discutere, nello scrivere sono allora qualità necessarie ad avvinarsi il più possibile alla verità dei fatti, a prendersi la responsabilità delle proprie azioni, a lottare per la “cosa giusta”. “Adaequatio rei et intellectus” – diceva San Tommaso – “La verità è il combaciare tra realtà ed intelligenza”. Oggi la realtà e’ piuttosto difficile da comprendere – per motivi che qui non espongo per necessita’ di sintesi – pertanto l’intelligenza deve fare uno sforzo in più. Quella di Glauco nell’affrontare le complesse questioni legate alla nostra disciplina rimane un modello a cui aspirare – soprattutto ora che non e’ più tra noi.

Quasi un anno fa in una conversazione con un direttore di un grosso studio di Sydney si commento’ la scomparsa di Zaha Hadid. La discussione porto’ a confrontarci su alcuni tempi del nostro lavoro che per qualche ragione spinse il mio interlocutore a chiedermi se nella mia formazione fossi stato ispirato da un architetto. Credo che si riferisse a contaminazioni di tipo formale. Quella domanda mi mise un po’ in imbarazzo e – lievemente infastidito – risposi: “In un’epoca in cui il nichilismo, l’ateismo e il fondamentalismo religioso dettano l’agenda della nostra esistenza, e’ come chiedere a qualcuno se crede ancora in Dio”. Il mio interlocutore sembro’ non capire. Cosi’ corressi il tiro spiegando lui che al di la’ delle opere realizzate ciò che rimane di un persona speciale – che opera nel mondo dell’architettura – e’ l’essere mentore di principi che vanno al di la’ dei formalismi estetici. L’impegno che Glauco ha dato alla nostra disciplina e’ senza alcun dubbio un esempio per tutti coloro che lo hanno conosciuto. Un punto saldo di riferimento per chi crede di avere il dovere (come architetto) di lottare sempre per la giustizia dell’architettura. Arrivederci Glauco. Con affetto. Nicola.


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