E’ tornata la luce alla Biennale e ha svelato il “politically correct del “freespace”
© arcomai I “Freesapce”, entrata del Padiglione Centrale ai Giardini
“Siamo architetti non curatrici”. Con queste parole Yvonne Farrell – che insieme a Shelley McNamara sono state incaricate di dirigere la 16a Mostra d’Architettura di Venezia – ha definito se’ stessa e la partner dello studio Grafton Architects all’apertura della conferenza stampa, presieduta da Paolo Baratta (Presidente della Biennale di Venezia), di fronte ai giornalisti intervenuti stamane al Teatro Piccolo dell’Arsenale. Parole che non lasciano dubbi sull’impronta pragmatica che le due architettrici irlandesi hanno voluto dare a questa edizione 2018 dal titolo “Freespace”.
© arcomai I “Freesapce”, le Corderie.
Che ci fosse qualcosa di inedito rispetto alle precedenti edizioni della Biennale lo avevamo già capito all’apertura dei cancelli dei Giardini quando, entrando nel Padiglione Centrale, siamo stati sopraffatti da una luce “nuova”. Infatti, Yvonne ha spiegato nel suoi intervento che come “investigatori”, dopo aver visitato gli spazi espositivi, hanno deciso di massimizzare la luce degli edifici (Artiglierie, Corderie e Padiglione Centrale), convinte che ognuno di essi abbia una propria personalità ben distinta. “E’ stato fantastico – ha enfatizzato la Farrell – abbiamo chiesto di vedere le Corderie vuote. E la cosa straordinaria per noi e’ stato trovare uno spazio di 300m di lunghezza che e’ diventato in qualche modo un partecipante”. Mentre nel Padiglione Centrale ai Giardini “…e’ stato interessante vedere questo complesso di ventidue stanze ciascuna della quali ha un carattere molto particolare con una luce unica. Abbiamo quindi tolto tutte le coperture presenti per rivelare queste bellissime stanze e questa meravigliosa luce veneziana; e nel farlo abbiamo scoperto delle cose che erano state nascoste. E stato come lavorare come un investigatore. Abbiamo trovato delle bellissime finestre fatte da Carlo Scarpa che nel tempo erano state nascoste da cartongesso ed altri materiali. Lo scoprire questi materiali ci ha aiutato a svelare questa bellezza e i rapporti che si creano aprendo delle viste sul canale e gli spazi verdi dietro ad esso”.
© arcomai I “Freesapce”, le Corderie.
Yvonne ha poi introdotto il loro manifesto spiegando che nella redazione del documento “…abbiamo pensato alle cose importanti della nostra vita architettonica. Abbiamo scelto il tema “freespace” per due motivi. Da un lato volevamo che lo spazio fosse presente perché l’architettura tratta dello spazio in cui vivono gli esseri umani – piuttosto che l’oggetto di per se’ – e che porta gli architetti a creare dei vuoti […] e di conseguenza la parola “free” (libero). Dall’altro siamo state ispirate dal concetto di generosità il cui spirito – che e’ la miniera d’oro del nostro fare – penetra in qualche modo dentro l’umanità. E’ un documento di sole due pagine. Le prime sette sezioni spiegano la generosità di spirito che gli architetti devono affrontare per soddisfare i desideri non espressi dagli individui, dando cosi’ una componente d’altruismo in ciascuna delle loro opere. Ciò ci porta a guardare anche ai doni gratuiti della natura: la gravita’, i materiali e la stessa luce, donataci anche dalla notte; tutte risorse che noi utilizziamo come architetti. E come “freespace” noi pensiamo anche a nuovi modi di parlare, di contemplare il mondo […] (infatti) noi siamo consapevoli del fatto che il mondo e’ il nostro cliente e che e’ un luogo molto fragile cosi’ come della responsabilità dell’architetto nell’uso delle risorse naturali. Spazio quindi anche di opportunità, affinché le cose possano succedere e in cui l’architettura non e’ un’entità passiva ma anche attiva come mezzo in grado di collegare il passato, il presente ed il futuro”.
© arcomai I “Freesapce”, le Corderie.
Shelley McNamara ha spiegato come il manifesto sia stato per loro come una guida, una sorta di checklist per selezionare professionisti, progetti nonché valori. Ha poi citato alcune opere realizzate ed esposte in mostra per spiegare i diversi significati del concetto di “spazio libero”. Nel suo intervento ha speso parole per l’architetto e le motivazioni del suo lavoro. “Come architetti alla fine non posiamo che essere ottimisti perché noi dobbiamo immaginare un nuovo mondo per chi ci chiede di progettare una università, una scuola, una casa; quindi immaginare il futuro. Per questo dobbiamo essere ottimisti, non possiamo non essere ottimisti se pensiamo al futuro”. Rispondendo alla prima domanda del pubblico la nostra ha continuato a parlare del ruolo dell’architetto e della nostra disciplina. Per essere chiara e diretta ha affermato “Una Biennale d’Architettura e’ diversa da Biennale d’Arte. Perché l’architettura e’ un’altra cosa”.
© arcomai I “Freesapce”, il Padiglione Centrale.
Affermazione molto interessante che sarebbe potuta essere maggiormente approfondita dalla relatrice, non foss’altro perché la Biennale d’Architettura e’ nata all’interno di quella dell’Arte negli anni ’80. Quali sono quindi le differenze tra le due biennali? Quali le loro strutture? Aspettative? Finalità? Come architetti (o semplicemente visitatori) possiamo dare diverse risposte a tale domande, ma francamente tale ci saremmo aspettati un “pronto intervento” del presidente Baratta per conoscere dove e come i due eventi si differenzino, almeno dal punto di vista della fondazione da lui rappresentata. Ma ciò non e’ avvenuto.
© arcomai I “Freesapce”, il Padiglione Centrale.
Momento indubbiamente rilevante della conferenza e’ stato quando una giornalista della testa El Pais (in modo critico) ha fatto notare – chiedendo spiegazioni ai due “non curatrici” – del perché in mostra non vi sia traccia di quei “free spaces” negati, che sono cosi’ “liberi” da caratterizzarsi più per gli aspetti negativi che per la generosità degli architetti. Immagino che la reporter spagnola avesse in mente quei contesti del paesaggio urbano contemporaneo (non solo europeo) in cui i conflitti e le contraddizioni della società si manifestano proprio laddove (piazze, edifici, area demaniali) la libertà e’ tale da negare legalità, decenza e sicurezza. Consideriamo questo intervento una constatazione oggettiva e costruttiva più che una mera provocazione. Sebbene la Biennale d’Architettura non sia un luogo di denuncia – anche se quella dell’Arte più volte lo e’ stato – ci si può lo stesso aspettare (in questa sezione) l’esposizione “curatoriale” di proposte pro-attive che celebrino il ruolo dell’architettura come strumento critico, costruttivo e preventivo in ambiti di emergenza senza per questo cadere in uno sterile terreno d’accusa.
© arcomai I “Freesapce”, il Padiglione Centrale.
A questa domanda Shelley non e’ sembrata molto convincente liquidando la questione cosi’: “Innanzitutto freespace può aver significati diversi. Alcuni progetti trattano di superfici. Se il linguaggio dell’architettura e’ ricco e generoso allora automaticamente crea uno spazio pubblico, uno spazio comune. Non abbiamo escluso gli spazi pubblici; ma non intendevamo lo spazio libero solo come spazio pubblico ma come spazio di riflessione. Noi ci siamo concentrate su quelle che sono le cose basilari come la luce, le ombre, il caldo e il freddo. Anche un piccolo progetto può arricchire le vite degli esseri umani. Questo di per se’ e’ spazio pubblico”. A questo punto Baratta si e’ sentito in dovere di aggiungere: “La Biennale dovrebbe contenere anche la contro-biennale. E’ un’idea molto affascinate. Ma avremmo bisogno di un paio di arsenali per dimostrare tutti gli errori, orrori, oppure soluzioni insufficienti. Questo e’ un luogo in cui noi diamo degli spunti. Il nostro obiettivo non e’ quello di rappresentare tutto il mondo, ma di dare al visitatore un luogo dove possa trovare chiarezza nella complessità del suo pensiero”.
© arcomai I “Freesapce”, le Corderie.
Non credo che vi sia bisogno di una una contro-biennale d’architettura con due arsenali. Più che affascinante questa suggestione ci sembra un po’ azzardata, esponendo la mostra a fondamentali deboli su temi cruciali della contemporaneità. Una biennale e’ sufficiente. Grazie! Basta solo guardare il mondo non solo con occhi di “investigatori del bello” ma con sguardo critico, che e’ poi alla base di ogni progetto architettonico. A proposito si coglie l’occasione per ricordare la scompara quest’anno del Tom Wolfe (1930), tra i padri del giornalismo d’opinione statunitense negli anni ’70 autore tra l’altro del celebre libro Maledetti Architetti ((1981, titolo originale From Bauhaus to Our House), un saggio graffiante sull’influenza negativa che una certa architettura – dovuta alla migrazione dei progettisti europei negli anni ’30 – ha avuto sulla qualità della vita nell’America del 900. È stato lui nel 1970 a coniare (con accezione sarcastica) l’espressione “radical chic”; poi il mondo si e’ perso dentro il “politically correct”.