Il surrealismo minimalista del vuoto passa dalla dissociazione dello spazio dalla città
“[…] accentuazione dell’insicurezza ontologica comune a tutti gli uomini, per cui anche in circostanze di vita ordinarie, un individuo può sentirsi più irreale che reale, letteralmente più morto che vivo, differenziato in modo incerto e precario dal resto del mondo, così la sua identità e la sua autonomia sono sempre in questione. Può mancargli la sensazione della continuità temporale; può fargli difetto il senso della propria coerenza o coesione personale. Si può sentire come impalpabile, e incapace di ritenere genuina, buona e di valore la stoffa di cui è fatto. Può sentire il suo io parzialmente disgiunto dal suo corpo”.
(Definizione di “dissociazione” da R.D. Laing, L’Io diviso. Torino, Einaudi, 1969).
© netflix I Fotogrammi del film “Il Buco”: i livelli, la tavola/piattaforma, la “panna cotta”.
A volte per comprendere una delle arti hai bisogno di un’altra delle sette. Nel caso del film “Il Buco”, diretto dallo spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia nel 2019, ho chiesto aiuto a Rene’ Magritte, non fosse altro perché’ il filone di questa drammatica pellicola (distribuita da Netflix a partire dallo scorso 20 marzo) sembra rientrare nella categoria del “fantastico”, anche se di taglio “distopico”. Sebbene l’artista belga non accettasse di buon grado che la sua attività creativa fosse associata al quel genere, il suo modus operandi e’ uno strumento essenziale per comprendere i labili confini tra ciò che appare reale e ciò che non lo e’, al punto che i suoi quadri fungono da passepartout grazie ai quali poter entrare nelle difficili stanze della conoscenza. Attraverso il paradosso che – applicato alla natura del”uomo – diventa dissociazione, egli riesce a rompere i legami tra somiglianza e convinzione, tra ciò che vediamo e ciò che crediamo sia, tra quello di cui parliamo e quello che pensiamo sia.
© netflix I Fotogrammi del film “Il Buco”: la cucina.
ll film è girato principalmente in un edificio multiplano – adibito a penitenziario – che si sviluppa sottoterra. La prima scena si svolge pero’ all’interno di una cucina che si trova al piano 0, dove un team di cuochi professionali preparano ed imbandiscono una larga tavola, la “piattaforma”, con i piatti preferiti di tutte le persone ospitate nella struttura. Qui le comparse sono vestite con uniformi che ci ricordano gli oramai popolarissimi programmi televisivi stile Masterchef. Il complesso – nominato “la fossa” dai suoi reclusi – si sviluppa per ben 333 piani sotto la cucina per una profondità approssimativa di circa un 1.3km (333/piano tipo x 3.8m/altezza cella tipo + 333 x 0.8m/spessore solaio tipo). Al centro di ogni livello si trova un foro rettangolare comune (di circa 8mq), a generare un pozzo dove una volta al giorno viene calata la tavola/piattaforma di vivande dalla cella più alta a quelle più basse. Ogni piano costituisce una vano per due prigionieri. La stanza tipo ha una dimensione di circa 45mq (5,7mx9.5m) escluso il foro (3.6mx2.2m), il che rende il locale una suite per due se consideriamo che una modulo abitativo standard europea per detenuto (esclusi i servizi) e’ di circa 8mq. Il bagno, senza divisori, e’ costituto da un lavandino con specchio e un gabinetto di “minimalista”. Le pareti ed i solai sono in cemento a vista stile Tado Ando (vedi Chiesa della Luce, 1989) secondo un modulo (ad occhio ) di1.8mx0.9m. Questo materiale costruttivo fa pendant con i pochi ambienti che nel lungometraggio si scorgono dell’area dell’amministrazione in cui si esibisce un evidente ambiente “brutalista”. Da non trascurare il contrasto/associazione tra l’orizzontalità strutturale di questo piano con la verticalità della “fossa” scandita dalla sequenza dei piani attraverso il vuoto.
© netflix I Fotogrammi del film “Il Buco”: la cella.
Per chi non ha visto ancora il film, ora racconto in sintesi la trama della storia. Non vi preoccupate, non vi rovinerò’ la suspense; quando vedrete la pellicola sarete liberi di sbizzarrirvi nel cercare i molteplici significati che il lungometraggio stimolerà nelle vostre menti. Qui vi raccontiamo – interpretando – solo il luogo (architettura) dove la storia si svolge, sperando di innescare in voi giudizi altri.
Il protagonista del film è Goreng, uno dei pochi volontari della sperimentazione, che decide di avventurarsi in questa esperienza di reclusione per smettere di fumare. Il suo primo compagno di cella è Trimagasi. Egli gli spiega le principali regole del posto, fra cui quella che più giù si scende e minori saranno le possibilità di sopravvivere; perché i prigionieri tentano di accapponarsi il cibo, prima che la piattaforma abbia lasciato la propria “gabbia”. Con lui trascorrerà un mese al 48° livello per poi spostati al livello 171°; e qui iniziano i problemi per loro. Trimagasi sarà ucciso da Miharu, una donna che ogni mese staziona sulla piattaforma per scendere in cerca di suo figlio. Imoguiri e’ invece il suo secondo “compagno” al livello 33°. Lei era l’impiegata dell’amministrazione che aveva selezionato Goreng. Anch’ella perde la vita in circostanze drammatiche. Al sesto piano troverà un altro coinquilino, Baharat che lo coinvolgerà a portare a termine un piano per sovvertire quel sistema (amministrazione) che ha creato quell’impianto infernale. Lo scopo e’ quello di portare il “messaggio” – di cui non vi dico nulla – fino a livello 0. Dopo aver raggiunto drammaticamente il piano 333 con loro grande sorpresa rinvengono una bambina, la figlia di Miharu. Il giorno successivo Goreng trova Baharat morto dissanguato. Carica la bambina sulla piattaforma che li porterà sul fondo del buco, un’enorme spazio buoi, un luogo “criptico”. Qui Goreng la lascia. Il film si chiude con le immagini dell’ascesa (ad altissima velocità) della giovane in superficie sdraiata sulla piattaforma.
© arcomai I Ricostruzione 3D della cella tipo.
Il tema della piastra è puramente surreale. E’ spessa come il solaio in cemento armato, e si muove come un ascensore senza ingranaggio, anche se si sente un rumore meccanico quando scende. Ricorda inevitabilmente la stessa inquietudine de “Il castello dei Pirenei” (1959) di Magritte: una fortezza di pietra che si erge su un macigno librato nell’aria, una città fortificata e inattaccabile, capace di sottrarsi alle contingenze della terra (gravita’) grazie ad una magica sospensione. E’ insomma una solidità fragile ed ideale in cui il sogno diventa incubo astratto. Nel dipinto è la base della città sospesa sull’abisso; nel film il pozzo che serve da passaggio e da sostegno di una “grattacielo ribaltato” e sospeso. Infatti i piani del “buco” con contengono il segno negativo ad identificare una quota sotterranea. Quindi il vuoto come elemento solido che comunque lo guardi (dal basso o dall’alto) non ne vedi la fine.
© netflix I Fotogrammi del film “Il Buco”: vista dei locali dell’amministrazione (orizzontalità) e della “fossa” (verticalità).
In “Golconde“ (1953) l’artista belga raffigura, invece, una serie di uomini sospesi a mezz’aria e vestiti in modo identico. Si differenziano nei volti e nella direzione del loro sguardo; hanno dimensioni diverse in base alla loro distanza dall’osservatore, quelli sullo stesso piano sono perfettamente equidistanti e nel complesso non si sa se stiano cadendo dal cielo o levitando verso l’alto. Questo punto di vista ci da’ la sensazione che via sia un altro uomo che, sospeso a mezz’aria come loro, si identifica addirittura come uno di loro. Nelle stanze del film non si vedono telecamere. Sembra che i detenuti non si sentono osservati. Allora e’ la piattaforma stessa ad essere la “intelligenza”, che vede e che giudica. La roccia, la terra come origine di tutto, come sapere eterno. Attraverso le opere surrealistiche di Magritte, riusciamo a vedere ciò che nessuno e’ in grado di vedere. Dipinto e film assumono un’accezione utopica quando tutto e’ uniformato (arredo, vestiti, cibo) ma con risvolti inquietanti (distopia) nel momento in cui si considera tutti gli uomini “normalizzati” e si assegna a ciascuno la stessa posizione nello spazio (cella).
© arcomai I Diagramma funzionale de “Il buco”.
© netflix I Fotogrammi del film “Il Buco”: la “fossa.
La cosa più’ interessante di questa prigione e’ di essere un’architettura ipogea, tipologia costruttiva che ha radici antiche, ma che oggi e’ particolarmente attuale sia sul piano simbolico che su quello tecnico-ambientale. In passato, infatti, questo tipo di opere fungevano da rifugio (proteggere gli abitanti dai nemici esterni) e da luoghi sacri, perché dedicati al culto o alla sepoltura dei defunti. In questi anni le costruzioni ipogee sono diventate fonte d’ispirazione per il filone “global-democrat” della bio-architettura. I principi di questa disciplina si prestano benissimo alla progettazione della nostra “torre interrata”. Il motivo è semplice: la struttura portante di questo edificio è interamente sotterranea. Sfruttando questo suo naturale isolamento termico, si riesce a mantenere in tutti gli ambienti una temperatura costante ed ottimale in ogni stagione (fresco in estate e caldo in inverno) con evidente beneficio sul piano del comfort ed del risparmio energetico. Il pozzo centrale, coadiuvato sicuramente da un altro condotto verticale, garantisce il ricambio continuo dell’aria. La presenza di una possibile cisterna (per la raccolta dell’acqua piovana) potrebbe integrare la fornitura di acqua per gli scarichi se non addirittura per lavarsi e bere. Lo spessore dei solai (che qui lavorano da contrafforti) mostrano la volontà di ambientare la storia in un luogo reale. Lo sviluppo in profondità del tunnel verticale ci fanno pensare che la capacita’ tecnico-costruttiva di questa società sia piuttosto avanzata come quella di uno dei cosiddetti paesi civilizzati denominati “sviluppati”.
© netflix I Fotogrammi del film “Il Buco”: la “fossa e la “cripta”.
Si tratta quindi di un’architettura meno invasiva nei confronti del paesaggio e quindi attenta ai problemi ambientali e urbanistici contemporanei. Se trascuriamo (per un attino) ciò che accade dentro “la fossa” e mettiamo insieme tutti questi fattori, ci troviamo di fronte ad un’architettura rappresentativa di una società “progressista” in senso politico del termine. Cosa più scioccante, scomparendo l’edificio del tutto alla vista questo, questo manufatto potrebbe rappresenta il manifesto della dissoluzione della forma architettonica, che implicherebbe un processo evolutivo “rivoluzionario” per la nostra disciplina. Ma questa e’ un’altra storia.
“L’artista (Rene’ Magritte) non si fa alcuna illusione sulla sua capacita’ di cambiare il mondo ma e’ perfettamente cosciente che se può dare un contributo a questo cambiamento, sarà soltanto attraverso la messa in discussione del modo di pensare su cui si basa lo status quo, delle leggi che fino a questo momento lo hanno governato”. (Magritte, Skira 2014).
© netflix I Fotogrammi del film “Il Buco”: l’ascensione della bambina in superficie.