La “impertinenza” della 17ma Biennale d’Architettura di Venezia
© arcomai I Padiglione Italia.
In Pertinenza e pratica (1976), forse il libro più noto di Luis Jorge Prieto (1926 -1996), il linguista e semiologo argentino spiegava che ogni conoscenza è inserita sempre in una pratica: si conosce solo ciò che può essere utile a soddisfare un bisogno. Prieto arriva a questa considerazione attraverso la generalizzazione della fonologia di Trubeckoij dove il fonema – inteso come un’unita’ di conoscenza della realtà materiale (ossia, un’individuazione di alcuni tratti pertinenti) – definisce ogni forma del sapere attraverso quel processo di pertinentizzazione in cui gli aspetti della realtà materiale vengono riconosciuti da una certa comunità per certi scopi.
Il concetto di comunità’ e’ molto più esteso rispetto a quello di cinquant’anni fa, non foss’altro che con l’ingresso della rete nella nostra vita questo si sia arricchito di significati nuovi grazie anche alla sua antropologizzata suddivisione in sub-comunità cultual-funzionali (accademica, scientifica, multietnica, ebraica, magrebina, mussulmana, scientifica, LGBT, social, del web,…. ) che non sempre sono legate ad un luogo fisico “territoriale”, ne tantomeno capaci di interagirsi tra loro a definire un’unica cittadinanza sociale. Anzi, direi che spesso il web contribuisce a consolidare le priorità (bisogni) dei gruppi, rendendole predominati rispetto al tutto. Tra le tante comunità esiste ancora quella degli archetti che, con le sue secolari esigenze e finalità professionali, dovrebbe essere anche oggi (luna delle poche) ad unire le diverse parti di una comunità, più che a dividerla. Se la Biennale di Venezia, alla sua 17ma edizione, e’ ancora dedicata all’architettura, ciò vuol dire che gli architetti dovrebbero ancora essere i fruitori più pertinenti della mostra. Eppure da oramai diverse rassegne non sembrano essere gli interlocutori privilegiati della rassegna nota in tutto il mondo.
Il significati delle parole che compongono il titolo della mostra proposta dal caratore della 17ma Biennale Hashim Sarkis.
La Mostra Internazionale d’Architettura (in programma lo scorso anno) e’ stata aperta al pubblico stamane (con un anno di ritardo causa la pandemia in corso) dopo una “due giorni” d’anteprima per la stampa. L’esposizione, curata da da Hashim Sarkis (architetto e docente di origine libanese ma operativo negli Stati Uniti) ha per titolo How will we live together? (letteralmente: “come vivremo insieme?”) con l’ambizione di affermare ”il ruolo vitale dell’architetto sia come cordiale catalizzatore sia come custode del contratto spaziale” che superi le divergenze politiche e le disuguaglianze economiche attraverso la pratica di una disciplina che in virtù della sua specificità materiale, spaziale e culturale può orientare gli attori della società civile verso modi alternativi e sostenibili di vivere comunitario. L’edizione di quest’anno include 114 partecipanti in concorso provenienti da 46 paesi e 63 partecipazioni nazionali con 4 paesi presenti per la prima (Grenada, Iraq, Uzbekistan e Repubblica dell’Azerbaijan).
“Non possiamo più aspettare che siano i politici a proporre un percorso verso un futuro migliore. Mentre la politica continua a dividere e isolare, attraverso l’architettura possiamo offrire modi alternativi di vivere insieme”. Con questo messaggio il curatore chiama a raccolta gli architetti del mondo per affrontare insieme questioni cruciali come gli effetti della crisi climatica sull’ambiente, dei massicci spostamenti di popolazione nei centri abitati, delle instabilità politiche in tutto il mondo, delle crescenti disuguaglianze razziali, sociali ed economiche, delle forme mutevoli del viver collettivo.
© arcomai I Padiglione del Belgio.
Quindi: Come vivremo insieme? Domanda forse generalista, per non dire sterile. Probabilmente ambigua, perché proietta l’immaginario ad un tempo indefinito del futuro. Sicuramente “impertinente” (non pertinente) all’architettura)? Noi archetti andiamo alla Biennale per aggiornarci sulle nuove tendenze in ambito progettuale, abitativo e tecnologico; per conoscere nuove tipologie edilizie, costruttive e materiali; per discutere e confrontarci anche di ciò che ci accade intorno. E’ inoltre un’occasione unica per capire in quale direzione vada l’architettura di un paese o di una regione del mondo. Prima di farci firmare un “contratto spaziale”, chiedeteci: Come voi architetti viviamo insieme? Chi siamo e cosa veramente facciamo? Dove e su cosa lavoriamo? Ma chi sono veramente questi coraggiosi progettisti che dovrebbero cambiare il mondo? Fatelo ora, non tra vent’anni. Chissà, magari fare il punto sul presente potrebbe aiutare a non scivolare verso speculazioni sterili sul un futuro utopico e/o distopico di un mondo che ha problematiche ben più complesse di quelle individuate nella dichiarazione di intenti di Sarkis.
Un museo, una galleria d’arte, una sala conferenze, un teatro, non sono luoghi per la conoscenza solo perché ci sia una targa identificativa all’ingresso o vi sia da pare un biglietto, ma perché questi spazi sono “luoghi della pertinenza”: edifici e spazi della conoscenza. Quindi luoghi in cui la pratica e’ il rigore. Invece il comune denominatore di questa mostra sembra essere l’ambiguità, la provocazione, l’ironia – non richiesta – e purtroppo la sciatteria sia delle istallazioni che dei contenuti. Solo pochi partecipanti hanno dimostrato serietà e dedizione indipendentemente dal tema proposto. Ma come si fa ad allestire questi padiglioni in questo modo? Esiste una supervisione da parte dell’organizzazione che ne controlli la qualità? Come fanno alcune nazioni partecipati, che che da decenni occupano i padiglioni dei Giardini, venire a Venezia a proporre questa roba? Bisognerebbe istituire un “Leone di Bronzo” per segnalare chi si e’ distinto per mancanza di decenza. Di chi e’ la colpa? Di Paolo Baratta o di colui (Roberto Ciccutto) che lo ha sostituito alla presidenza della Biennale? O e’ forse ancora colpa del nemico invisibile?: il covid 19 e sue varianti 20, 21, 22.
Un architetto che visita una mostra di architettura e’ un innanzitutto un professionista che si aspetta di vedere qualcosa di pertinente alla suo esercizio. Cosa fondamentale e’ il linguaggio! In questa disciplina si parla una sola lingua, un vocabolario internazionale pronunciato con planimetrie, piante. sezioni, spaccati assonometrici, schizzi, modelli, prospettive, dettagli, prospetti, diagrammi e foto. Il tutto veicolato da sintesi e chiarezza. L’overdose di materiale digitale sta alterando questa lingua meravigliosa. E’ solo puro intrattenimento, Perché l’architetto doverebbe stare dentro un padiglione buio a vedere filmati per trovare un senso che non c’entra con la pratica della suo fare? Perché far credere ad un visitatore cosa che un architetto no e’? Se l’organizzazione sapesse cosa noi (architetti, designers, ingegneri, geometri, docenti, redattori e giornalisti di riviste), che da vent’anni puntualmente veniamo a Venezia, pensiamo della decrescita culturale in atto, rivedrebbe sicuramente questo omologato approccio generalista alla questione architettura. Allora, concordate direttamente il tema della prossima edizione con noi. Vi daremo indicazioni chiare che responsabilizzeranno i partecipanti. Siate seri. Il rigore e serietà del Giappone veglierà su di voi.
© arcomai I Padiglione del Giappone.