E’ caduta una bomba ai Giardini della Biennale ma ha distrutto il muro sbagliato

© Martin Lauffer I Vista dal Padiglione venezuelano della muro di separazione parzialmente demolito che separava i due padiglioni.

Due padiglioni nazionali ed un muro che al tempo stesso unisce e divide, costituiscono il significato di Neighbours, il progetto di Karin Sander e Philip Ursprung per il Padiglione della Svizzera – adiacente a quello del Venezuela – alla 18ma Biennale di Venezia. I due curatori (entrambi docenti all’ETH di Zurigo) mettono in evidenza la potenziale continuità delle planimetrie dei due edifici il cui connubio, a parer loro, testimonia l’affinità creativa dei due progettisti uniti anche da un rapporto di amicizia e rispetto professionale: lo svizzero Bruno Giacometti (1907-2012) e l’italiano Carlo Scarpa (1906-1978). Siccome i vecchi platani ubicati su entrambi i lotti non potevano essere abbattuti, gli architetti progettarono i loro edifici attorno a questi. Le mura, i tetti e gli spazi esterni delle costruzioni si incontrano creando una relazione di prossimità anche se poi in realtà i due edifici sono molto diversi: il padiglione svizzero è in mattoni, quello venezuelano e’ in cemento a vista; il primo ha un design più orizzontale, mentre il secondo è più verticale

© arcomai I Viste del Padiglione della Svizzera alla 18ma Biennale d’Architettura.

“Abbiamo pensato ai due Padiglioni come una continuità spaziale ed abbiamo articolato ciò che già esisteva: il Padiglione non esercita più la funzione di contenitore per un’esposizione, ma sono l’architettura stessa, i suoi materiali e le sue relazioni spaziali a diventare la mostra. Agire nella prospettiva dell’arte, permette di fare le cose in modo diverso rispetto ad adottare una visione legata unicamente all’architettura. Pertanto, Neighbours è anche una conversazione aperta tra arte e architettura”, hanno dichiarato Karin Sander e Philip Ursprung. Ed ancora […] “I Padiglioni svizzero e venezuelano formano un insieme di straordinaria qualità architettonica e sculturale. A causa della loro funzione rappresentativa, essi sono però concepiti come unità distinte e dunque anche allestiti di conseguenza. Abbiamo quindi cercato di ripensare le funzioni dei due padiglioni e del loro ambiente circostante e di superare i rispettivi confini mediante mezzi artistici. In questo modo ci interroghiamo sia sulle demarcazioni spaziali, culturali e politiche che sulle convenzioni della rappresentazione nazionale. Con un gesto utopico, al luogo contrapponiamo una realtà poetica che per un momento lascia posto a una nuova prospettiva”. Il gesto poetico ed artistico e’ stato la demolizione parziale di un muro del padiglione di Giacometti.

Mettendo al centro l’architettura stessa come oggetto espositivo, i curatori offrono ai visitatori nuove prospettive sulle relazioni territoriali all’interno dei Giardini, mettendo anche in discussione la rivalità tra i diversi padiglioni nazionali alla Biennale, che per loro e’ un anacronismo. Iniziativa ambiziosa no foss’altro che hanno demolito il muro sbagliato per ottenere tra l’altro un discutibile scopo. Infatti hanno sventrato parte del muro d’ingresso del padiglione venezuelano – che per loro e’ di proprietà svizzera – quando potevano semplicemente concordare col Venezuela la rimozione di quel muro in prossimità che per anni ha tenuto separati i due manufatti e che non aveva nulla con la impronta originale di entrambi.

Planimetria dei due padiglioni con evidenziato il muro in rosso il muro. (Rivista TEC21, Nr.14/2023).

Il Padiglione svizzero aprì i battenti nell’estate del 1952. Quattro anni più tardi, in occasione dell’inaugurazione della XXVII Biennale, fu la volta del Padiglione venezuelano. Dai disegni originali di Scarpa si evince che l’unico elemento di separazione tra i due edifici era una siepe, forse successivamente integrata da una grata in ferro a cui poi e’ stato aggiunto un muro di mediocre fattura, forse per non farsi vedere dentro. Quella recinzione e’ ora esposta insieme ad altre nella sala più piccola delle due che costituiscono il Padiglione svizzero. Il cuore dell’installazione si trova nella cosiddetta “galleria dei dipinti” dove su un grande tappeto e’ riprodotta in scala la pianta dei due edifici; su cui le persone possono camminare e visionare sui muri i disegni di progetto per entrambi i padiglioni.

Invece di rimuovere queste superfetazioni si e’ preferito sventrare il muro di cinta che in realtà definiva l’ingresso al padiglione adiacente. Dice Sander: “Una parte cruciale del nostro ingresso è stata la scoperta di un muro sul lato venezuelano che è stato aggiunto successivamente: in realtà non ci appartiene e interrompe la continuità delle due aree esterne. Ripristiniamo questa continuità aprendo il muro svizzero che corre lungo il lato adiacente e liberando il muro venezuelano per ergersi come una scultura”. Una pura follia. Sono caduti in un madornale errore filologico. Hanno sbagliato muro. Mi stupisce come la presidenza della Biennale abbia permesso questo scempio; nonché il comune di Venezia ad aver autorizzato questo “abuso edilizio”. Formalmente banale e’ stata poi la conversione di pezzi delle macerie murarie in sedute per i visitatori. 

Viste del muro che della grata che che separava i due padiglioni (da www.biennials.ch).

Secondo i curatori l’architettura ha sempre una dimensione politica. Eppure la loro “mostra non vuole essere un esercizio di pubbliche relazioni”, che poi e’ alla base di ogni dialogo a livello extra-nazionale. “E’ solo un mezzo per mettere in discussione e rivedere idee e atteggiamenti radicati”. Quindi non hanno preso in considerazione la possibilità di organizzare insieme coi loro Neighbours una mostra collettiva, che poteva essere l’unica ragione intelligente in grado di avallare le motivazioni di una modifica spaziale dell’esistente, creando le condizioni per un approccio espositivo alternativo basato su dialoghi tra partecipanti riguardo a temi ed finalità comuni.

A loro dire, hanno informato le autorità venezuelane che avrebbero rimosso il muro dalla parte svizzera – che poi e’ lo stesso della parte venezuelana – ed oggi stanno ancora aspettando una risposta ufficiale dal governo sudamericano. Viene spontaneo chiedersi: “Chissà perché non hanno ancora ricevuto risposta?” Per i due docenti dell’ ETH, in Venezuela governa un regime in cui “artisti e altri creativi sono murati e isolati” e quella breccia nel muro dovrebbe dare voce e speranza agli oppressi. E cosi’ la mostra diventa un esempio di come “l’arte possa avviare un dialogo. In questo caso, potrebbe esserci più margine di manovra nell’arte che nella politica”.

© arcomai I Vista interna del Padiglione del Venezuela. Pianta del progetto originale del padiglione disegnato da Carlo Scarpa.

Nell’idea originaria di Scarpa era evidente che il Maestro non aveva voluto chiudere spazialmente i due edifici. Aveva semplicemente messo una siepe come separazione. Bastava semplicemente saper leggere una pianta senza preconcetti per capire che non c’era bisogno di sostituire un muro fisico con un altro invisibile. Il Nostro aveva sviluppato una soluzione architettonica che, oltre ad essere plastica ed al tempo stesso sobria, era capace di mediare l’orizzontalità e leggerezza del Padiglione svizzero col peso volumetrico del padiglione dell’URSS, oggi padiglione della Russia. Alla luce degli attuali eventi tragici che affliggono l’Europa in ambito di di politica estera, a distanza di settant’anni la lezione compositiva di Scarpa e’ di un’attualità sorprendente; mentre il resto e’ solo demagogia. Invece la presunzione ed l’arroganza hanno prevalso sul buon senso. E’ facile demolire la materia delle cose costruite dagli uomini, ma non e’ altrettanto facile costruire l’immateriale che e’ alla base delle relazioni civili tra gli uomini. E’ con questi maldestri comportamenti di vicinato che un semplice sgarbo tra confinanti può innescare qualcosa di più grosso, una “guerra di vicinato”.

© Martin Lauffer I Vista dal Padiglione svizzero con il muro parzialmente demolito.


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