A Pesaro, la Settima Arte e’ bella ma parla troppo di se’ stessa

© arcomai I Ingresso del Teatro Sperimentale di Pesaro.

Luca Guadagnino (noto regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano) ospite d’onore alla 60ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove gli è stato assegnato il premio Nuovo Cinema 60, ha partecipato ieri ad un incontro col pubblico presso il Teatro Sperimentale. Dopo aver parlato dei suoi (vecchi e nuovi) progetti cinematografici si è intrattenuto con gli astanti rispondendo alle loro domande per circa una mezz’ora. L’evento è stato moderato da Pedro Armocida, direttore artistico della kermesse pesarese.

Il dibattito si apre con una domanda di un ragazzo che, dopo aver sottolineato come per lui nella ricerca cinematografica del regista vi sia la volontà di “…umanizzare le case e gli ambienti”, cosi’ si rivolge all’ospite chiedendogli: “…cosa lo abbia spinto ad accettare films e racconti ambientati in spazi esterni e sconfinati”. Guadagnino esclude da subito che il tema del rapporto dei protagonisti col loro ambiente sia all’origine del suo lavoro, anche se poi ammette che “…lo spazio è interessante quanto i personaggi” – che per lui – “… sono ne inclusi ne esclusi, ma appartengono ad un altrove totale”.

A seguire una ragazza chiede “…in che modo la teoria abbia influenzato la sua pratica di cineasta”. Il regista non ha dubbi al riguardo e, riferendosi al Nouvelle Vague, precedentemente citata, se ne fa propria aggiungendo “… la (Nouvelle Vague) nasce teorica e diventa pratica nel cinema”. Guadagnino si riferisce a quel preciso periodo della storia del cinema francese, ossia tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, segnato da un insieme più o meno circoscrivibile di giornalisti, di critici, di autori, di avvenimenti, di films, di idee e di concezioni della regia nell’ambito del quale si alimentarono confronti e dibattici anche teorici che determinarono una stagione unica in cui si sviluppo’ un fenomeno cinematografico tanto proficuo quanto complesso.

© arcomai I Luca Guadagnino risponde alle domande del pubblico del PFF.

Sempre dalla sala un’altra ragazza chiede quale sia per lui la differenza tra film e la serie TV. La risposta è lapidaria, “…non c’è alcuna differenza tra gli sceneggiati degli anni ’50 e le serie di oggi. È una materia audiovisiva che necessita di esistere perché deve riempire uno spazio di consumo, ma quello non è cinema […] sono prodotti merceologicamente completamente diversi, anche se esiste la possibilità che a volte un prodotto audiovisivo, destinato al consumo televisivo o streaming, possa travalicare la sua natura merceologica e diventano un’altra cosa”. Dopo una breve riflessione indica nei registi Lester James Peries, Rainer Werner Fassbinder e David Lynchtre le uniche illustri eccezioni che si siano cimentati in sceneggiati. Il pubblico sembra divertito sul fatto che al regista non siano venuti mente altri maestri macchiati da quel “reato in pellicola”.

È la volta di un altro spettatore chiede se per lui lo sport sia una forma d’arte. Anche se non nominato, il ragazzo si riferiva a Challengers (2024), il film scritto dallo sceneggiatore e drammaturgo statunitense Justine Kuritzkes e da lui diretto, che è ambiento nel mondo del tennis. Il regista sembra scocciato dalla domanda, che poi utilizza come assist per articolare una citazione che vale la domanda stessa. Il tennis è per lui come il macguffin per Alfred Hitchcock, cioè un espediente narrativo, un qualcosa attorno al quale si crea enfasi e si svolge l’azione che per i personaggi del film ha un’importanza cruciale, ma che è in realtà privo di un reale significato per lo spettatore.

Un altro astante, nel riferendosi ai due film (di genere horror) realizzati dal regista (Suspiria , 2018) e Bones and All, 2022), chiede che cosa sia per lui il film dell’orrore. Per prima cosa Guadagnino specifica che quel genere cinematografico nel corso degli anni ’70, ’80, ’90 si sia diversificato molto. Poi citando Dawn of the Dead (1978) di George A. Romero, aggiunge che quel film prima di esse horror e’ un capolavoro del cinema. Si tratta “… di un film allegorico, apocalittico, di sopravvivenza […] Non ha effetti sorpresa, non ha musica d’effetto, non ha i canoni tipici dell’horror. In questo film il regista statunitense “… ha saputo rappresentare il dolore di quella società”. Quindi l’orrore che travalica la fiction, perché traduzione della realtà. Un’affermazione forte che sarebbe valsa la pena approfondire ma che il nostro preferisce dribblare continuando: “…Non so cosa voglia dire fare film come dici tu horror, se tu pensi all’horror come una codificazione. The Omen (Il presagio, 1976) di Richard Donner con Gregory Peck era un film di studio, un film della 20th Century Fox che ha tutte le regole che devono essere applicate, le shock values, i jump scheres, …e non e’ che (oggi) sia cambiato granché. Tutti i film che scendono da quella linea horror seguono quella ricetta. A me non interessa quel genere di cinema horror. Se pero’ penso a ciò che il cinema horror che amo mi ha insegniamo, ovvero ad una riflessione devastante e profonda sul reale, (allora) è un genere che amo profondamente, e che credo di aver provato a fare (bene) sia con Suspiria che con Bones and All“. Poi cita Giallo (2009) di Dario Argento “…che ha qualcosa di formidabile perché lui si inventa una fotografia infantile delle sue ossessioni e lo fa con queste foto plastiche molto curate. […] Per me il cinema horror esiste nel momento in cui diventa una sorta di visione metafisica. Allora diciamo che i due opposti che si toccano sono Michael Berryman e Romero: uno che si pone in una posizione filosofica esplicita (Berryman) e uno che con grande umiltà sonda delle profondità inesplorabili (Romero). Guadagnino sembra non accettare che i suoi film rientrino in un genere specifico anche se per chilo guarda appartengono a quella categoria cinematografica.

© arcomai I  Porta del PFF, Via Rossini, Pesaro.

Un altro ragazzo prendendo il microfono esordisce dicendo: “Siccome lei prima parlava dell’approccio critico nei confronti dell’industria, e siccome questo paese tende a perdonare poco il talento, che cosa non le è stato perdonato ed in particolar modo perché Guadagnino viene visto da gran parte della critica come un soggetto da allontanare rispetto al cinema d’autore?”. Il nostro lo ferma e un po’ contrariato dice che non e’ vero. “L’Italia mi ha dato tantissimo, non solo le persone con cui ho lavorato e continuo a lavorare, ma anche materialmente come il Fondo per le opere prime e seconde per il film dal titolo Diciannove, con la regia di Giovanni Tortorici e che ho prodotto con fondi nazionali che sono arrivati alla nostra casa di produzione”. Poi entra nel merito della domanda rigirandola a chi l’ha fatta: “… bisogna capire che cosa è la critica, chi sono i critici e che cosa fanno i critici. Se ci riferiamo a quei sei o sette quotidiani, allora non sono neanche d’accordo […] c’è un’enorme quantità magnifica di studiosi e critici del cinema che regolarmente aggiornano il punto di vista critico sulla vita del teatro e del cinema da sempre, ed il libro (Spettri del desiderio. Il cinema e i film di Luca Guadagnino, ‎Marsilio Edizione, 2024) che parla di me lo dimostra. Altra domanda e’ sul suo rapporto tra lui e William S. Burroughs in Queer. “Questo film e’ il mio omaggio a Powell e Pressburger (Giorgio). Avendo visto Peeping Tom (L’occhio che uccide. 1960) 150 volte penso che Michael Powell apprezzerebbe anche le scene di sesso di Queer, che sono numerose e abbastanza scandalose. Il pubblico ride.

Deviazione sul tema del cinema è offerta dalla domanda di un altro spettatore che, menzionando la sua regia per il Falstaff (2011), chiede se dirigere un’opera lirica sia stato per lui solo un episodio, e se ci riproverà. Guadagnino confessa che ama moltissimo l’opera e desidererebbe dirigerne altre: “…anche per lavare la brutta macchia ed onta di quella brutta regia del Falstaff. Non avevo capito come funzionava, perché non sapevo che nell’opera hai veramente solo cinque giorni per provare con i cantanti. Mi piacerebbe fare La morte di Klinghoffer di John Adams”.

© arcomai I Luca Guadagnino riponde alle domande del pubblico del PFF.

Un altro spettatore chiede quando lui si sia approcciato alla produzione e come si muove nello sviluppare certi progetti. “Quando produco devo sentire che il regista ha l’assoluto dominio del film da tutti i punti di vita. Scegliere di produrre un film segnica per me scegliere qualcuno che abbia in se’ la capacita’ di visione e la capacita di azione e pratica. La stamina è la febbre di saper dominare il suo lavoro”. Lo stesso astante chiede anche: “Cosa porterebbe nella realtà produttiva italiana di quella americana, e cosa le manca della produzione italiana quando lavora in America?”. Il nostro non ha dubbi: “Ogni metodo produttivo dipende dai regolamenti. In America il sindacato è il deus ex machina di come viene costruito un film: il numero di personale che devi prendere, il tipo di organizzazione logistica che devi avere. Pensiamo al blocco della produzione con i due scioperi dei sceneggiatori prima e degli attori poi, e si pensa che presto ve ne sarà un altro dell’IATSE (International Alliance of Theatrical Stage Employees), che riunisce tutte le figure della troupe. In America, loro dividono i film in union e no-union, quindi se vuoi fare un film no-union no puoi lavorare con nessuno che appartiene ai sindacati con evidente estrusione di un certo tipo di pratica. Nelle produzioni delle unions tutto è basato sulla quantità di denaro per fare il film oltre il quale non puoi andare. In questo senso è molto rigido il modo di lavorare.

L’ultima domanda se la aggiudica una signora che chiede se il regista sia stato mai incuriosito sul tema della politica o della storia della politica. “…Ci ho provato ma non ci sono ancora riuscito. C’è un periodo molto forte, violento, di tensione in Italia che dovrebbe essere raccontato: il momento in cui cambia completamente la società dopo le repressioni fine anni ’70. Segreto di Stato (2003) era un film di Paolo Benvenuti che aveva provato (a trattare il tema), e che mia ha molto deluso”.

Il dibattito di ieri al PFF (Pesaro Film Festival) tra il noto regista italiano ed il pubblico intervenuto è stato istruttivo, anche se sono emersi molti malintesi. Sebbene durante il suo intervento (prima delle domande degli spettatori) Guadagnino abbia rassicurato tutti affermando che: “Il cinema non è morto, ma è una prospettiva che deve scardinare la linea di pensiero di chi guarda”, durante il successivo dibattito sono arrivato alla conclusione che “chi guarda” potrebbe essere il problema o che abbia un problema, a cui il cinema può ovviare correggendolo il suo mind setting. Gli interventi delle persone in sala venivano da un pubblico “tecnico” (studenti o giovani addetti ai lavori), che sembravano conoscere bene il regista ed il suo lavoro. Le risposte del film-maker hanno dimostrato un certo distacco empatico tra lui e i suoi fans. Poi, le continue citazioni di “maestri” del passato hanno appesantito la conversazione. Sembrava di essere a scuola. Guadagnino per parlare di se’ ha parlato degli altri. Forse chi fa cinema è abituato ad essere prolisso con se’ stesso e gli altri. La “settima arte” sarà anche viva, ma non per questo uno non deve perdere la libertà di pensare rispetto alla sua propositiva di pensiero.

© arcomai I Piazza del Popolo, “Cinema in Piazza”, Pesaro.


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