Il “modulor in vetro” che libera l’arte dal muro
© arcomai I I “cavalletti di vetro” di Lia Bo Bardi alle Corderie dell’Arsenale.
Nel 2021, nell’ambito della 17a Biennale d’Architettura venne riconosciuto a Lina Bo Bardi il Leone d’Oro speciale alla memoria. Quest’anno alla 60a Mostra Internazionale d’Arte di Venezia, la Biennale omaggia la stessa inserendo i suoi celebri “cavalletti di vetro” all’interno del’esposizione principale del programma e precisamente nella terza sezione alle Corderie dell’Arsenale dal titolo Nucleo Storico, Italiani Ovunque. Si tratta di un riconoscimento tanto atteso per una personalità importante della seconda meta’ del ‘900 che ha contribuito a rivoluzionare il modo di concepire l’esposizione dell’arte. La scelta di inserire questi pannelli nella sezione dedicata agli artisti italiani, che hanno viaggiato e si sono trasferiti all’estero, è particolarmente significativa. Bo Bardi, pur essendo italiana di nascita, ha trascorso gran parte della sua vita in Brasile, dove ha sviluppato un linguaggio progettuale unico e innovativo.
Lina Bo Bardi, all’anagrafe Achillina Bo (1914-1992), nasce e si forma a Roma. Bardi e’ il cognome del marito Pietro Maria (1900-1999) che fu un noto giornalista, gallerista e critico d’arte nonché figura di rilievo della cultura fascista. Nel 1946 la coppia si trasferisce a San Paolo (Brasile). Insieme all’attrice Nydia Licia istituiscono il MASP (Museu de Arte de São Paulo), di cui il marito fu curatore per 45 anni. Lina lavora come architetto, redattrice di riviste, grafica, designer di mobili e gioielli, scenografa, curatrice e scrittrice.
© arcomai I I “cavalletti di vetro” di Lia Bo Bardi alle Corderie dell’Arsenale.
Il suo “cavalletto in vetro” è un dispositivo unico nella storia degli allestimenti museali. Concepito appositamente per la pinacoteca del MASP, viene presentato per la prima volta all’inaugurazione del museo nel 1968, da lei progettato. L’elemento – realizzato in cemento, vetro, legno, neoprene e acciaio inossidabile – e’ una spessa lastra di vetro inserita in un cubo di cemento. Il vetro, bloccato da un’elegante zeppa in legno a sezione trapezoidale con pomello, va a formare un pannello trasparente autoportante capace di sostenere opera d’arte di varia natura e dimensione. E’ stato pensato in quattro misure (240×75 cm; 240×100 cm; 240×150 cm; 240×210 cm). Una sorta di modulor espositivo che, a differenza di quello “rigido” utilizzato da Le Corbusier come strumento della progettazione, qui e’ “parametrico”, cioè relativo alla relazione esistente tra i requisiti di più parametri: l’uomo, l’opera d’arte e lo spazio in cui si trova.
Qui all’Arsenale come al MASP i cavalletti sono distribuiti in file a simulare una parata. Le opere te le trovi tutte di fronte, decidi tu dove andare, cosa vedere. In questo “spazio in libertà” il pubblico è quindi portato a creare i suoi percorsi, consentendo accostamenti e dialoghi inaspettati tra le opere esposte. Questa trasparenza permette ai quadri di “fluttuare” nello spazio, smaterializzando i supporti e concentrando l’attenzione sull’opera. Ciò contribuisce a toglierle all’arte un’aura di sacralità, avvicinandola all’uomo, a rompere le gerarchie, a creare un’atmosfera più informale e invitante, facilitando un’osservazione più immersiva, intima e personale da parte del visitatore. Rimuovendo le partizioni e staccando le opere dalle pareti, l’arte diventa più accessibile, permettendo così al pubblico di stabilire con esse un rapporto più stretto e diretto. A ciò si deve aggiunge la percezione dello sfondo che stimola l’interpretazione dell’oggetto d’arte oltre i limiti del piano. Le informazioni sulla paternità, titolo, data e materiali delle opere si trovano dietro al cavalletto in modo che il visitatore possa approcciarle in libertà. I muri dell’Arsenale spesso non si prestano a fare da supporto/sfondo a video, quadri, immagini, sculture e modelli architettonici sia per il fuori scala del volume dell’ambiente rispetto agli oggetti esposti sia per la texture della “muratura faccia a vista” che spesso e’ più invasivo di un muro tinteggiato. Il successo di questa sezione della mostra va ritrovato nello spazio creato da questa foresta di totem che fanno sparire i muri che definiscono il vuoto delle Corderie.
© arcomai I I “cavalletti di vetro” di Lia Bo Bardi alle Corderie dell’Arsenale.
Dietro alla ricerca di questo geniale dispositivo di arredo museale si cela un mondo che rappresentava l’emancipazione culturale degli anni prima del conflitto Mondiale in Italia, in primis la ricerca spaziale futurista – vedi i bozzetti di scena di Enrico Pampolini (1894-1956) – con la smaterializzazione dello spazio; e le innumerevoli mostre ed allestimenti di cui Roma e Milano in particolare furono per anni teatro e palestra per giovani architetti ed artisti coinvolti nelle attività “promozionali” del regime – vedi Mostra dell’Aeronautica italiana, Sala delle Medaglie d’Oro alla Triennale di Milano del ’34 ad opera di Edoardo Persico e Marcello Nizzoli). Grazie anche al marito, Lia ha potuto vivere in prima linea l’atmosfera ed il fervore culturale di una stagione irripetibile.
Questi cavalletti sembrano rappresentare il motto della Teoria della Gestalt (sviluppata in Germania in quegli anni): “Il tutto è diverso dalla somma delle sue parti”. Questo concetto suggerisce che l’esperienza umana non può essere ridotta alla sua componentistica più elementare, ma piuttosto comprende una percezione della totalità organizzata. Quando applicata all’arte, questa prospettiva significa che non percepiamo un’opera d’arte come una serie di linee, colori o forme separate, ma piuttosto come una configurazione coerente e significativa.
Ma l’eredita’ che l’architetto italo-brasiliano ci ha lasciato e’ un modo tutto italiano di “fare industria”, condizione che, per certi versi, e’ ancora presente. Mentre in quegli anni al Bauhaus si consolidava il rapporto tra design e industria, si celebrava il matrimonio tra creatività e produzione, la cultura italiana dell’epoca concepiva l’industria ancora come un “fatto” artigianale ed artistico. Lia Bo Bardi col marito ha esportato in Brasile proprio questa “cultura del dialogo” tra manualità ed arte e tra arte e architettura. Ella voleva rendere l’arte accessibile a tutti, togliendola da un piedistallo e avvicinandola al pubblico. In ciò questi elementi senza tempo rappresentano un invito a guardare all’arte con occhi sempre nuovi, e ad immaginare spazi espositivi più accoglienti e coinvolgenti. Non ultimo, questa mostra ci fa riflettere sul ruolo fondamentale dell’architettura nell’esposizione delle opere d’arte.
© arcomai I I “cavalletti di vetro” di Lia Bo Bardi alle Corderie dell’Arsenale.