“Raising the Flag on Butler”: Il complotto delle immagini è più forte del complottismo della propaganda
© arcomai I Il Marine Corps War Memorial.
Flags of Our Fathers è un film del 2006 diretto da Clint Eastwood e scritto da William Broyles Jr e Paul Haggis. Basato sull’omonimo libro scritto da James Bradley e Ron Powers, descrive la battaglia di Iwo Jima, una roccaforte giapponese strenuamente difesa dal punto di vista dei Marines statunitensi durante la Seconda Guerra Mondiale. Nello stesso anno il regista diresse un secondo film sulla stessa battaglia, intitolato Lettere da Iwo Jima, che racconta l’evento secondo la prospettiva giapponese. La trama della prima pellicola è la ricostruzione di come tre di sei soldati che furono fotografati nell’atto d’innalzare la bandiera statunitense sul campo di battaglia siano stati fagocitati dalla macchina di propaganda statunitense rappresentando il simbolo dell’imminente vittoria sul nemico e, al tempo stesso, raccogliere fondi da destinare ai bilanci di guerra.
Il fatto reale si svolse il 23 febbraio 1945, dopo cinque giorni dall’inizio dello sbarco sull’isola. Sei soldati statunitensi (cinque marines ed un marinaio) piantarono la bandiera sopra il Monte Suribachiun, un rilievo di 169m dell’isola del Pacifico che era un importante punto intermedio tra le basi dei bombardieri degli Alleati ed il Giappone. Il fotografo Joe Rosenthal, con un pizzico di fortuna, catturò il momento in un’immagine divenuta “immortale”. Due giorni dopo, quella fotografia – nota come Raising the Flag on Iwo Jima – apparirà sulla prima pagina di tutti i giornali domenicali degli Stati Uniti, facendo guadagnare (quello stesso anno) al suo autore il Premio Pulitzer. Nell’arco di qualche settimana la stessa istantanea divento’ il simbolo del governo statunitense, successivamente riprodotta innumerevoli volte sullo schermo.
© frontpages.com I Prime pagine della stampa statunitense dopo il tentato assassinio di Donald Trump.
Nel 1954 quell’istantanea ispiro’ la realizzazione di una monumentale scultura dedicata a tutti i Marines che avevano sacrificato la loro vita per gli Stati Uniti dal 1775. Nel 1955 il complesso scultoreo, realizzato da Felix de Weldon, venne eretto al Cimitero Nazionale di Arlington (in Virginia). Conosco bene quest’opera – celebre col nome di Marine Corps War Memorial – poiché da bambino un cugino americano di mio padre mi regalo’ una monografia illustrata del monumento che mi divertivo a riprodurre in disegno. Nel Dicembre 2009, andai per la prima volta negli Stati Uniti e chiesi di portarmi a visitare il monumento. Ricordo che rimasi un po’ deluso: pensavo fosse più grande e la fattura dei corpi in bronzo non era impeccabile.
Il 15 Luglio, all’indomani del fallito attentato a Donald Trump a Butler (in Pennsylvania), la prima cosa che mi è passata per la mente, vedendo le immagini in televisione, fu proprio il Marine Corps War Memorial. La costruzione plastica della scultura e’ molto simile alla scena vista sullo schermo. Sei sono i soldati che piantano la bandiera; e sei sono gli agenti del Secret Service (le guardie del corpo ) che attorniano il tycoon per proteggerlo e scortarlo giù dal palco. Se si sostituisce la bandiera americana con il corpo di Trump, si ottiene una scena sorprendentemente analoga. La postura del secondo soldato a destra (nella foto originaria di Rosenthal) è quasi identica all’agente donna (immortalata da Evan Vucci, fotografo capo dell’Associated Press a Washington) che guida la scorta fuori dalla scena del delitto. Entrambi piegano il gomito destro enfatizzando un gesto simile ad un’azione di football americano con il giocatore che corre verso la meta, rappresentata in questo caso dall’auto presidenziale. Inoltre i due “fatti” si svolgono su un podio con sullo sfondo una bandiera a stelle e strisce. Il doppio grido rivolto alle telecamere da Trump: “Fight!, Fight!”, rende la scena marziale, più pertinente ad un teatro di guerra che ad un comizio andato male. Dettaglio non trascurabile, Vucci è un fotoreporter molto noto poiché nel 2021 vinse il Premio Pulitzer insieme ad altri colleghi della Ap per aver documento le proteste scoppiate in America dopo l’uccisione di George Floyd, l’afroamericano soffocato dagli agenti a Minneapolis nel maggio del 2020.
Si tratta di un evento straordinario che suppongo abbia impressionato tutti i cittadini americani, ed rievocato in loro – anche inconsciamente – ricordi drammati simili della storia americana recente. E questo grazie anche all’industria dell’intrattenimento statunitense che ci ha abituati – per non dire assuefatti – ad immagini subliminali, finalizzate a pubblicizzare prodotti commerciali ma anche alla veicolazione di idee, valori o messaggi dissimulati volti a persuadere gli spettatori nei riguardi di argomenti divisivi e distrattivi. Ciò che e’ successo a Butler è, prima ancora di un evento realmente accaduto, una magistrale performance realizzata da quella “fabbrica della rappresentazione” a scopo pedagogico che e’ Hollywood. Una gigantesca “macchina dell’immaginario” che la politica statunitense e’ riuscita a plasmare fino a farle assumere le sembianze della massima espressione del complesso militare-cinematografico degli Stati Uniti, dall’interguerra fino ad oggi passando attraverso quella “fredda”. Lo stretto legame tra l’Intelligence ed Hollywood è un esempio affascinante di come il potere e la cultura possano intrecciarsi in modo inaspettato. Questa relazione ha lasciato un segno indelebile sulla storia del cinema e sulla percezione pubblica degli eventi storici. Comprendere questo legame è fondamentale per apprezzare in modo critico i prodotti culturali che consumiamo e per riflettere sul ruolo dei media nella società contemporanea.
La battaglia sul Monte Suribachiun duro’ cinque settimane e si concluse con 6,281 americani morti e 26,000 feriti. Le vittime giapponesi furono il triplo dei quelle americane. All’epoca molti si domandarono se quel piccolo avamposto vulcanico avesse valso davvero un prezzo così alto di viete umane da ambo le parti. La battaglia di Butler è durata solo pochi secondi, causando solamente due vittime, entrambe da “fuoco amico”. Il resto è storia!
© arcomai I Il Marine Corps War Memorial.