Form matters: il rigore austero dell’architettura di Chipperfield per capirne l’essenza del suo essere
© oscar ferrari_arcomai | Installations della mostra David Chipperfield – Form Matters.
Sono passati 25 anni dall’inizio professionale di David Chipperfield da quando, cioè’, l’architetto inglese apri’ il suo studio nel 1984, dopo aver lavorato per Stephen Douglas, Norman Foster e Richard Rogers. Oggi quello stesso studio ha sedi anche a Berlino, Milano e Shanghai. Il Design Museum dedica al suo fondatore una mostra – inaugurata il 21 Ottobre e visitabile fino al 31 Gennaio 2010 – dal titolo David Chipperfield – Form Matters.
Come spiega lo stesso Chipperfield, la forma non e’ importante in quanto tale, ma e’ la forma insieme al materiale di cui e’ composto un edificio che rendono il progetto un’opera d’architettura. Se cio’ spiega il titolo della mostra, l’obiettivo di questa e’ quello di voler porre l’attenzione sulle dinamiche che portano alla costruzione di un manufatto architettonico e come questo potrebbe apparire. Aspirazione questa che il curatore sembra voler ottenere andando al di la’ della specificita’ del tema, provando con altruismo ad accompagnare il visitatore in un percorso che lo porti a comprendere anche l’essenza di architetture elaborate da altri.
L’allestimento – che si propone di essere qualcosa di più di una semplice rassegna di architettura – e’ articolato secondo l’interazione di disegni di grande formato, plastici e fotografie di progetti sviluppati in tutto il mondo (Cina, America, Messico, Giappone, Italia, Spagna e Germania). La selezione delle opera esposte – qui raggruppate secondo due categorie: “single project” e “body of work” – non segue volutamente un percorso cronologico ne’ tanto meno una ricostruzione teorica del pensiero architettonico e professionale sviluppato da David Chipperfield Architects dalla meta’ degli anni ‘80 ad oggi.
Ruolo fondamentale del linguaggio espositivo e’ dato alle fotografie che corrono lungo i tre lati della stanza al primo piano del museo. Sono una o due per ogni edificio costruito, sufficienti queste a dare il senso della materialità’ e della qualità’ fisica dell’edificio. Mancano forse testimonianze di cantiere che – senza penalizzare la poetica dell’edificio finito.- potrebbero aiutare a soddisfare quella curiosità nel dettaglio architettonico che questi edifici stimolano inevitabilmente agli addetti ai lavori.
Parte importante della produzione di Chipperfield sono gli edifici residenziali. Tra le case private riconosciamo quella a Deurle in Belgio (2005-2009) e quella in via di realizzazione nell’Oxfordshire (2006-2011), accomunate entrambe da un’attenta articolazione degli spazi interni che, a loro volta, generano relazioni uniche con il paesaggio di cui fanno parte. Tema attuale e’ anche quello dell’edilizia economica-popolare che viene sperimentato in modo innovativo nel complesso Villaverde a Madrid (2000-2005): un blocco “scultoreo” di 8 piani reso leggero dal misurato alternarsi delle finestre, il cui disegno complessivo ne fa una mappa indicativa dei pieni, dei vuoti e dei materiali, qui espressi con pannelli in concrete in tre diverse sfumature color terra.
Una piccola ma pertinente sezione e’ quella dedicata alla produzione di oggetti per la casa. Su due distinti tavoli troviamo la collezione di posate Santiago Cutlery e quella di ceramiche Slegtoen Toegemann disegnate entrambe per Alessi, a dimostrazione che la sensibilità’ di Chipperfield per lo spazio abitato non si ferma solo a livello volumetrico e distributivo ma tende a pensare anche agli aspetti domestici del quotidiano. Si tratta di oggetti eleganti ma in qualche modo “poveri” ed essenziali, colorati con tinte chiare e naturali. Ordinati su un piano secondo le modalità’ espositive tipiche di un museo archeologico, questi strumenti dell’uomo sembrano voler indicare i segni di una civiltà’ che seppur presente/contemporanea si manifesta con la stessa semplicità’ di quelle passate, perché’ gli arnesi prodotti e usati dall’uomo non hanno tempo, essendo questi l’essenza primordiale dell’essere. Questa profonda capacita’ di controllo dell’ambito domestico la ritroviamo anche in opere pubbliche in cui il fruitore si trova a comportasi con la stessa disinvoltura con cui vive un ambiente privato. A tal proposito il vuoto centrale della BBC Scotland and Pacific Quay di Glasgow (2001-2006), come in una scena teatrale organizzata secondo una sequenza di stanze aperte, trasforma lo spazio collettivo in una dimensione dinamica articolata per aree private tra loro relazionate.
Tra le opere esposte piu’ note e rilevanti per dimensioni e funzioni troviamo lo Anchorage Museum (2003-2009), la Des Moines Public Library (2001-2006) e il Figge Art Museum a Davenport (2005-2006), tutti e tre negli Stati Uniti; lo American Cup Building a Valencia (2005-2006); la Galleria d’Arte Contemporanea Turner di Margate (2006-2011) e quella Am Kupfergraben 10 entrambe a Berlino (2003-2007). Tra i “progetti italiani”, realizzati o in fase di costruzione, riconosciamo l’ampliamento del Cimitero di San Michele in Isola (Venezia), noto come La Corte dei Quattro Evangelisti (1998-2013) e il polo museale Area Ansaldo a Milano (2000-2011) in cui al centro del complesso esistente, sottoposto ad un intervento di restauro industriale, Chipperfield si concede una “frivolezza” proponendo una suggestiva “corte costruita” senza spigoli.
Tra i concorsi ci piace ricordare il progetto del ’94 per la Bankside power station alla Tate Modern, ove in modo coraggioso – ed in certo senso irriverente – viene sostituito il camino simbolo dell’edificio con un’ampia vetrata rettangolare a marcare una diversa centralità’, capace di attivare una nuova gerarchia spaziale e rompere il fronte in modo da determinare un rapporto più’ forte con l’altro lato del Tamigi.
Discorso a parte va fatto per i progetti delle cittadelle della giustizia di Barcellona (2002-2009) e Salerno (1999-2011) che, per quanto diversi per contesti storico-culturali, sembrano affrontati con la stessa attenzione nei riguardi delle funzioni istituzionali che rappresentano. E’ proprio questa grande sensibilità’ progettuale che Chipperfield dimostra di avere nei riguardi degli edifici pubblici che fa di questi, a mio avviso, uno dei piu’ autorevoli architetti europei contemporanei. Senso delle istituzioni, della storia e profonda conoscenza della città’ europea sono alla base di un’architettura che Chipperfield rende a volte monumentale. Monumentalismo – mai verticale – che non deve essere letto in modo superficiale per l’uso che l’architetto fa di griglie strutturali, colonne e architravi (vedi il Museum of Modern Literature di Marbach am Neckar in Germania, completato nel 2006 e vincitore un anno dopo dello Stirling Prize), ma inteso come misurata espressione dei significati che i suoi edifici pubblici comunicano attraverso la consistenza del “volume” che e’ sempre sobrio e integro, “classico” ed austero, essenziale e rigoroso, perché’ le opere pubbliche non possono essere corrotte da ambiguità’ ed eccessi.
© oscar ferrari_arcomai | Installations della mostra David Chipperfield – Form Matters.
Ma e’ nell’intervento di ricostruzione del Neues Museum di Berlino – a cui la mostra dedica ampio spazio con modelli, fotografie e disegni tecnici – che la rigorosa “logica del progetto” di Chipperfield si esprime in tutta la sua maturità’ e completezza. Non e’ quindi un caso che la scalinata del museo, riprodotta in grande formato, sia posta all’ingresso/uscita della mostra, quasi a voler sintetizzare il percorso intellettivo di Chipperfield costruito in questo quarto di secolo.
L’edificio, realizzato nella meta’ dell’800 e poi parzialmente distrutto dai bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale, e’ rimasto abbandonato a se stesso fino al 1997, anno in cui Chipperfield vinceva il concorso di progettazione (sviluppato in collaborazione con Julien Harrap Architects) per il recupero e la valorizzazione del complesso. Originariamente parte della cosiddetta “Isola dei Musei”, l’edificio, inaugurato al pubblico in ottobre, ospita ora le collezioni della civiltà’ egizia e d’arte preistorica. L’intera ala Nord-Ovest e quella Sud-Est del museo non esistevano più, mentre l’imponente scalinata risultava fortemente compromessa.
Seguendo i principi dettati dalla Carta di Venezia, l’architetto ha lasciato intatte le “ferite” del passato, ricomponendo il volume originario con l’annessione di spazi di nuova costruzione che si sviluppano in continuità con la struttura esistente. Le nuove stanze sono state realizzate con grandi elementi prefabbricati in cemento ottenuti con una gettata di cemento bianco impreziosito da granulati di marmo di Sassonia. Con lo stesso procedimento tecnico è stata ricostruita anche la parte danneggiata della scalinata che con il ripristinato del rivestimento in mattoni, spoglio naturalmente dai decori originali, accentua il valore simbolico di questo spazio. Il risultato complessivo e’ un compromesso perfetto tra le strutture ottocentesche superstiti e le “addizioni” moderne, per un luogo che non vuole essere di intrattenimento, ma una casa della meditazione in cui ritessere i fili spezzati della storia, come le vigorose giunture, che colmano la lacuna del corpo martoriato (vedi lo scalone d’ingresso), tentano di fare. Da citare l’elegante allestimento ad opera di Michele De Lucchi, con cui Chipperfield ha già’ collaborato in passato, al quale sono stati affidati i lavoro di riordino delle collezioni esposte.
Nell’ambito della mostra Chipperfield, parlando di se’, dice che il suo lavoro e’ guidato da due responsabilità’: un approccio al progetto che pone la singolarità’ di questo rispetto all’unicità’ del contesto (cosa che a volte sembra scontata ma che difficilmente viene raggiunta con esiti sinceri e felici), e il costruire secondo un modo sedimentato. La progettazione e’ per lui una ricerca sempre aperta, un processo di sintesi che toglie il superfluo secondo un’attitudine tipica dell’arte scultorea, come dimostrano le serie di modelli di studio per lo Empire Riverside Hotel di Amburgo (2002-2007).
Scopo del suo lavoro e’ ridurre l’architettura al minimo, liberandola da ogni connotazione di complesita’ e retorica, per mostrala in tutta la sua schietta naturalezza, ed esprimere cosi’ l’essenza del suo essere attraverso la comprensione chiara dello spazio, della forma e dei materiali di cui e’ composta. Materiali che per lui non devono abbellire, quanto piuttosto rendere riconoscibili i volumi e le linearità’ che insieme alle ombre definiscono una forma che a sua volta puo’ essere apprezzata in quanto tale solo con la disciplinata relazione tra gli spazi interni ed esterni. L’architettura – spiega Chipperfield – e’ il risultato di un processo complesso che necessita di un’idea, di una visione in grado di dare ordine e direzioni per poter prendere decisioni. L’architettura deve parlare da sola. Non c’è’ nessun manifesto, poiché’ e’ essa stessa manifesto. Citando poi Loius Kahn, lo stesso afferma che un edificio deve essere in grado di trovare “what it wants to be”.
La meta’ degli anni ’80, quando come si e’ detto all’inizio Chipperfield apri’ il suo studio, era anch’esso un periodo di recessione. Il Design Museum con questa operazione ha voluto dare un messaggio chiaro non solo alla comunità’ degli architetti: la crisi del mercato e’ prima etica che economica; c’è’ il bisogno di purificare la società’ dai vizi ed eccessi che ne hanno intossicato i valori civili; se l’architettura e’ in grado di ritrovare una propria disciplina, allora può’ tornare ad essere strumento di cambiamento ed rinnovamento.
© oscar ferrari_arcomai | Installations della mostra David Chipperfield – Form Matters.