LA citta’ ideale: può ancora esistere un’idea di città’?
Si è tenuta mercoledì 21 settembre, presso la Sala Congressi di Carpi (Modena), la prima conferenza del ciclo di cinque programmate “Le città ideali. Paesaggio, Qualità, Architettura” di cui fanno parte anche una Tavola Rotonda, un Workshop ed una Mostra (www.lecittaideali.it). L’incontro dal titolo LA CITTA’ IDEALE: può ancora esistere un’idea di città’? ha avuto come relatori Bruno Adorni, Richard Ingersoll e Pippo Ciorra e come moderatore Matteo Agnoletto.
Per Bruno Adorni, storico dell’architettura, le “città antiche sono sempre meglio di quelle moderne”: alla facilità d’orientamento del passato, segno di chiarezza di contenuti, si contrappone il disorientamento della città d’oggi, che ha reso necessari i sistemi informativi scritti per riuscire a muoversi al suo interno. In sostanza, un chiaro sistema di viabilità è anche segno di riconoscibilità urbana, impossibile da eguagliare con il dedalo delle infrastrutturazioni delle città attuali. Esistono pertanto delle precise relazioni morfologiche tra i sistemi di reti di collegamento delle città ed i contesti da queste generati nel tempo: la viabilità connessa all’uso dei veicoli a motore ha quindi trasformato “irrimediabilmente” le nostre città?
Le “città ideali”, cioè pensate secondo un preciso pensiero progettuale, come le città di fondazione, sono sempre state legate a delle visioni personali, dei principi, non sono state tanto delle utopie ma bensì delle nitide razionalizzazioni dei luoghi e delle società del tempo che le hanno prodotte. E’ stato così anche per le città dell’Emilia, tutti centri nettamente pianificati fino all’800, specchio di una società piramidale e rigida al suo interno, senza bisogno dell’urbanistica. Tant’è stato Bruno Zevi ad inventarsi la figura storica dell’urbanista, immaginando l’operato di Biagio Rossetti a Ferrara nel Rinascimento, forse nel tentativo di legittimare l’operato della nuova disciplina, paladina del Modernismo: ma la “storia è azione essa stessa, non la prepara”!
Richard Ingersoll, storico e critico della città contemporanea, ha illustrato come si sia passati rapidamente dal concetto di “centro città” a quello di ’”eurospraw”. Lo sprawl americano ha oramai soppiantato la città, così come concepita nel modello europeo, e la megalopoli padana (di 25 milioni d’abitanti) si sta avvicinando molto alle realtà d’oltreoceano. Non esiste più una netta contrapposizione tra la città ed il contado, ma una continua compenetrazione tra i due sistemi insediativi, la città diffusa insomma, o la “ruraurbanizzazione” in altri termini. Al di là d’alcuni sparuti esempi di fondazione di città particolarmente significativi, oltre a quelli militari (S.Giovanni Valdarno e Pienza, per esempio), sono forse più interessanti i casi di tentate rifondazioni dei sistemi urbani, come l’inserimento delle grandi Gallerie nei centri cittadini operati nella fine dell’800, manifestazione architettonica dell’unità italiana da poco raggiunta e così simboleggiata.
Il caso di Sabaudia, tra le tante nuove città del “ventennio” italiano, è forse tra tutte quella meglio riuscita: una città giardino di stampo anglosassone, anche se inserita in un programma di bonifica, con isolati aperti, strade brevi ed un enorme bosco artificiale che ne ha bloccato la possibile espansione nel tempo. Il quartiere dell’EUR, di Piacentini e Pagano, si basava inizialmente su un grande asse infrastrutturale, un’autostrada urbana, sul modello lecorbuseriano, prevedeva perfino delle improbabili torri di vetro ed acciaio: il tutto è stato però tradotto, se pur coerentemente, in una città di pietra, troppo formale, e solo il viale Colombo, simile ad una parkway, è rimasto unico a testimoniare il tentativo di modernità. Sono diventati i grandi contenitori commerciali, come i centri IKEA, sempre uguali a se stessi e ripetitivi, che ci accompagnano in ogni città, a rappresentare al meglio gli scenari dell’attualità?
Osservando la pianta della conurbazione lombarda Ingersoll la paragona alle opere di J.Pollok, ma la casualità di queste forse non corrisponde con le logiche insediative disperse, che bisognerebbe cercare di capire un po’ più a fondo per tentarle di governarle. Ma di fronte a questi scenari, è giusto esprimere giudizi puramente formali come “bello” o “brutto”? O forse, invece di cercare un’inutile bellezza, nella quale dovremmo comunque rifletterci, ci piaccia o no, dobbiamo semplicemente cercare di abbellirla? Due sono gli esempi possibili di città considerate ideali nell’immaginario italiano: Milano 2 ed il quartiere della Bicocca.
Seppur vi abbiano lavorato diversi progettisti di qualità, come L.Caccia Dominioni ed altri, Milano 2 non ostenta alcun’emergenza architettonica, appiattendosi in una dignitosa qualità media, senza attirare troppe attenzioni: è il “sogno svizzero” italianizzato, un insediamento appartato dalla grande città, una palese forma d’isolamento sociale intenzionale, con molto verde “tranquillizzante”. Si tratta questo di una fuga dalla città, una specie di “città in vacanza”, con tanto di polizia privata interna, come ce ne sono tante in nordamerica e da molto tempo: tutti gli edifici sono distribuiti sul bordo ed un grande parco è posto al centro, con tanto di lago artificiale, voluto e divenuto immagine-emblema dell’insediamento. Non c’è quindi alcuna piazza e non ci sono conflitti interni, le strade sono sinuose ed ondulate, i garage sono ben nascosti alla vista, i pochi negozi previsti hanno chiuso subito (la spesa viene fatta nelle boutique del centro o negli ipermercati).
L’operazione immobiliare della Bicocca, sempre a Milano, rappresenta la più grande in Italia negli ultimi 20 anni, vede Gregotti Associati come unici progettisti ed è ultimata già per il 90%. Gli isolati sono dei superblock ma risultano anche in parte aperti; solo i diversi colori degli edifici, troppo simili tra loro, identificano le funzioni (residenza ed uffici in prevalenza); è ben servita dalla viabilità e dai mezzi pubblici; anche qui mancano i negozi, mentre l’unico supermercato insediato non riesce a catalizzare la vita del quartiere. Unica eccezione in uno scenario monotono è rappresentato dalla monumentalizzazione della torre di raffreddamento dello stabilimento industriale trasformato della Pirelli, diventata il quartiere generale della Pirelli Real Estate.
Una direzione da intraprendere per migliorare la città contemporanea, sempre secondo Ingersoll, può essere allora quella di considerare le infrastrutture come opere d’arte: rappresentano i più grandi catalizzatori di risorse finanziarie attuali e possono essere considerate le nostre “cattedrali”: l’esempio delle “stazioni dell’arte” di Napoli dovrebbe far scuola. Incrociare i programmi funzionali è un’altra necessità: incrementare la vitalità funzionale e sociale, più mixitè urbana insomma. Infine, compensare la natura negli insediamenti residenziali, ridefinito “agricivismo”, come se ancora tutti avessero voglia di zappare.
Pippo Corra, critico d’architettura, ritiene che la città ideale è quella che ogni cittadino riesce a ricostruire attorno alla sua dimora: esistono pertanto tante città all’interno della stessa città, tante forse quanti i suoi cittadini, e può capitare così che molti di questi non s’incontrino mai, pur vivendo vicino. In molte parti della città contemporanea, apparentemente non progettata, mancano del tutto gli spazi pubblici e perciò sembra non esserci bisogno d’architetti: un po’ come la città che ci ritagliamo attorno a noi, anche i nostri spazi sono sempre più “autocostruiti”. In fondo, le nostre metropoli non hanno identità e perciò non sanno difendersi, perché non hanno nulla da perdere, non riescono ad immaginarsi.
Una “città ideale” può esistere solo se preceduta e sostenuta da una sequenza d’altri ideali, per cui oggi, privati come siamo degli ideali e delle ideologie, non riusciamo neanche ad immaginare una “città ideale”. Ci vuole innanzitutto un’idea del mondo all’origine ed un’architettura ideale praticabile in fondo per poter attuare un ideale di città. Forse solo negli anni sessanta del secolo scorso si è attivato l’ultimo pensiero critico sulla città, basta pensare alle proposte di allora del Superstudio, di Rem Koolhaas e di Peter Eisenmann, per afferrarle ancora.
Condividendo la definizione d’Ingersoll, oggi la città è “meteorologica”, ossia è non solo imprevedibile nella sua evoluzione ma soprattutto è ingovernabile, si enuncia una specie di resa incondizionata. Ben ha saputo intuire questa realtà Aldo Rossi, decantando anzitempo la morte della città ideale storica, anche se ha generato non pochi fraitendimenti: l’architettura esiste solo se è in grado di istituire legami con il suo tempo!