Un’altra Biennale
© pablo souto l Caracas. Foto esposta alla 10. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, gentilmente concessa da Urban Think Tank Caracas Informal City project.
L’EXPO/Biennale di architettura di Venezia, giunta alla sua decima edizione, fu concepita nella seconda metà degli anni ’70 sulle esperienze spontanee della Sezione Architettura dell’ente “La Biennale”. È nel 1980 che si ha il battesimo della prima Mostra Internazionale di Architettura con la direzione di Paolo Portoghesi che, con il noto allestimento (all’interno delle Corderie) della Strada Novissima, ha fatto entrare, di riflesso, questa manifestazione nella storiografia architettonica che ha riconosciuto in essa la nascita del postmoderno internazionale. Il Teatro del mondo di Aldo Rossi, montato in laguna qualche mese prima della sua inaugurazione, rimarrà per sempre l’ icona pop di quella prima biennale.
La Mostra Internazionale di Architettura di Venezia è quindi una manifestazione relativamente giovane che – a dispetto del suo nome – ha avuto una vita discontinua e controversa come i curatori che vi si sono succeduti in questo quarto di secolo. Partita come un laboratorio di idee su temi specifici dell’architettura (1980: La strada novissima; 1982: le realizzazioni nei paesi islamici; 1985: un concorso di idee per i siti lagunari, …), con la sua 7° edizione del 2000 – dal titolo LESS AESTHETICS, MORE ETHICS – l’esposizione ha acquisito regolarità temporale e, al tempo stesso, dato inizio ad una nuova formula organizzativa orientata sempre più alla realizzazione di un evento di cultura di massa attorno alla promozione dell’architettura e sue emergenze. I titoli delle edizioni del 2002 e 2004 (NEXT di D. Sudijc) e (METAMORPH di K. Foster) sembrano confermare la tendenza generalista iniziata nel 2000 con la direzione di M. Fuksas.
Di questa oramai collaudata natura mediatica de “La Biennale” sembra averlo capito bene il Padiglione del Venezuela che, utilizzando il proprio spazio come canale satellitare no-global ha, senza mezzi termini, ridotto la sua partecipazione ad un messaggio/cartello (posto all’ingresso dell’edificio) di denuncia nei confronti dell’interferenza dei paesi ricchi negli affari interni di una parte del mondo (il terzo) che non è più disposta a subire un modello di sviluppo che è incompatibile con le diverse realtà di cui è composto. Un atto forte e, al tempo stesso, discutibile che, oltre a dimostrare di aver interpretato il tema trasversale di questa edizione, conferma la potenzialità comunicativa di un appuntamento internazionale di questo genere in cui, sebbene “La Biennale” di Venezia sia una sorta di olimpiade dell’architettura – ove per tutti “l’importante è partecipare” – solo 49 sono i fortunati concorrenti chiamati sulla linea di partenza di questa grande maratona.
È in questa stagione di inizio millennio che si inserisce la decima edizione dall’ambizioso tema CITIES. ARCHITECTURE AND SOCIETY che, come preannunciato alla stampa, ha come obiettivo quello “… di informare e di provocare un dibattito sul modo in cui sarà forgiato il futuro della società urbana, nel momento preciso in cui le città rappresentano oggi un nucleo critico per l’agenda globale. Si cercherà di ricondurre la struttura fisica delle città – gli edifici, gli spazi e le strade – e i progettisti – architetti, urbanisti e designers – alle dimensioni culturali ed economiche dell’esistenza urbana”. Quindi, l’architettura in “mezzo” tra l’ambiente costruito e la società che lo abita, questa sembra essere la formula scelta dal curatore di questa edizione, l’architetto-urbanista Richard Burdett, che, mettendo a riposo l’apologia edonistico-formale dell’edizione precedente, tenta di porre il progetto al centro del “fattore città” e, così, di responsabilizzare gli architetti nei confronti della complessità del vivere nella città contemporanea. Città che è stata rappresentata, nei 300 metri delle Corderie dell’Arsenale, da un allestimento che, come una corsia d’ospedale, mostra le cartelle clinico-statistiche di 16 grandi zone metropolitane nei quattro continenti del pianeta (Barcellona, Berlino, Bogotá, Il Cairo, Caracas, Città del Messico, Istanbul, Johannesburg, Londra, Los Angeles, Milano-Torino, Mumbai, New York, San Paolo, Shanghai, Tokyo) e alcune operazioni chirurgiche (progetti) con le quali farle sopravvivere.
È una città un po’ troppo generalista quella risultante dalla media aritmetica di questo team di metropoli mondiali, di cui quella tricolore è il frutto di un gemellaggio forzoso tra Torino e Milano, visto che una e l’altra da sole non riescono ad indossare la taglia XL delle altre in squadra. Sedici realtà che però non rappresentano la città su cui noi architetti dovremmo intervenire con la nostra esperienza. A quella scala sono le multinazionali del progetto, i grandi gruppi immobiliari, i REAL ESTATE, i cosiddetti “poteri forti” che dettano legge, che progettano la città; non certo l’architetto, quello cioè che dovrebbe produrre il fattore vitale (architettura) che Burdett ha collocato tra città e società. Non convincono, o meglio non soddisfano i bei grafici&statistiche elaborarti tridimensionalmente ordinati lungo il corridoio dell’Arsenale che – seppur importanti – vedono annullare il proprio valore oggettivo dall’overdose di immagini (filmati e fotografie) che con occhio personale ma distante (non solo perché la maggior parte di queste sono riprese da un elicottero e non dall’aereo, ma perché sono tutte uguali, già viste, patetiche) ritraggono profili che del reale mostrano soltanto gli aspetti più drammatici. Stiamo attenti a non diventare dei ragionieri dell’abitare e tanto meno ad arrenderci nella ricerca dell’urbanità che è l’anima di tutte le città ovunque esse si trovino.
È in atto un fenomeno di “omologazione della visuale” che Oscar Ferrari chiama “anestesia dello sguardo”. Il palazzo insanguinato di Caracas al Padiglione Italiano può essere interpretato come un pulp-architettonico, il “profondo rosso” della fotografia oggi, l’atto perverso di una ricerca volta a stupire, a carpire lo sguardo di un voyeur ormai indebolito dalla dipendenza di immagini artificiali di cui il suo occhio è vittima, non certo contribuire alla conoscenza di quella specifica urbanità. Donna nera che allatta un bambino, macerie, sporco, caos, traffico; tutto è dramma, lutto, dolore, vergogna, lercio, monumentale. Eppure la città è altro, o meglio non solo questo. Ce lo ricorda in modo garbato il Padiglione del Belgio che ai Giardini si è presentato con un allestimento sobrio accompagnato da un tascabile dal titolo populista The beauty of the Ordinary che nella contro-copertina chiama la città: “Banal, extraordinary, populist, cold, bleak, empty, anecdotal, interesting, uninteresting, ephemeral, transitory, soulless, shitty, ugly, typical, small, well-trained, (Belgian), modest, resistant, plastic, exotic, familiar, lager, flat, rainy, windy, to be imagined, to be constructed…” che è poi e semplicemente quella europea. È la città europea la grande esclusa di questa biennale, è lei il centro permanente invisibile del dibattito sulla società; le altre non hanno senso senza di lei; le altre vengono dopo.
È un’altra biennale quella del Padiglione Italiano alle Tese Vergini all’Arsenale in cui è stata presentata Italia-y-2026. Invito a Vema: “…una città di fondazione, ma anche una città ideale, innovativa, utopica – della “utopia della realtà” di Ernesto Nathan Rogers” – progettata, sotto la supervisone di Franco Purini, “…da venti architetti, o gruppi di architetti, tra i trenta e i quarant’anni, che hanno affrontato altrettanti problemi, tra i quali la casa, i luoghi di lavoro, il corpo, l’arte, le infrastrutture, i media, il verde, il tempo libero, l’energia”.
Con Vema il nostro Paese si presenta al mondo in tutta la sua anomalia. Mentre gli altri si muovo sforzandosi di lavorare sull’esistente, con LA CITTÀ CHE NON C’È non solo si disattendono le “regole di ingaggio” di questa edizione ma, con un colpo di spugna, si cancellano decenni di discussione/dibattito sulla città italiana: “non riusciamo a gestire la città di oggi, allora ne progettiamo una nuova, addirittura ideale”; MA IDEALE PER CHI? Nella storia della città l’atto di fondazione nasceva da esigenze diverse e chiare: prendere possesso, colonizzare, bonificare, …, creare una società nuova, migliore, civile. E a Vema, quali sono state le ragioni di iniziazione che hanno portato alla scelta di un lotto della pianura tra Verona e Mantova nonché la sua progettazione e futura eventuale realizzazione?
“La scelta non è stata casuale”, spiega il curatore del progetto in conferenza stampa, “diciamo che hanno pesato i motivi che Verona, da decenni, rivendica giustamente il ruolo di crocevia d’Europa. Anche se si tratta di città ideale, volevamo essere sicuri della fattibilità del progetto e per questo ci siamo avvalsi della collaborazione di Nomisma, che ci ha messo a disposizione aspetti socio-economici del territorio che di fatto avallano quelli logistici. Il quadrante territoriale veronese-mantovano dal punto di vista imprenditoriale, culturale e ambientale è una realtà tra le più pregiate d’Italia e quindi idonea a simboleggiare il futuro prossimo che abbiamo progettato. In secondo luogo, l’area è collocata in prossimità dell’incrocio dei corridoi ferroviari transeuropei Lisbona-Kiev e Berlino-Palermo, facendone un nodo strategico dell’economia mondiale».
Ecco svelata la matrice esoterica della nuova città del futuro che forte di quel fattore “y” del suo nome, “…suggerisce – come sottolinea Purini – a livello subliminale l’amplificazione extranazionale del Paese e il trascendimento creativo dei propri confini”. Sarà Lei la pietra miliare su cui far uscire l’Italia dalla periferia (del mondo) in cui si trova?. Chi la dovrebbe governare? I caporali di questa politica degenere? Sarà una giunta di centro-destra o una di centro-sinistra? O forse è meglio una di centro e basta, visto che la città è in mezzo ad altre due e porta un nome da motorizzazione civile. Quale popolazione la dovrebbe abitare? Gli extra-comunitari con cittadinanza lampo “chiavi in mano” o chi vorrebbe stare lontano da loro? Chi la costruirà, le cooperative padane, i grandi gruppi immobiliari o i cosiddetti “amici del quartierino”? A chi le consulenze milionarie? Alla Nomisma o a qualche altra società di servizi? Ma soprattutto, qual è il messaggio politico, innovativo, rivoluzionario, fondatore e civile per società italiana del futuro?
A noi non importa cosa/come sarà la città nel 2026, noi viviamo adesso e adesso chiediamo scelte coraggiose, non “outlet dell’abitare” in prossimità di caselli autostradali. Vema è arrivata prima al traguardo nella grande gara del futuro, perché non è mai partita: dopo 26 anni dalla Strada Nuovissima si è arrivati alla Città Nuovissima. Chissà se il volenteroso Burdett non verrà ricordato alla storia come l’involontario padrino di un postmoderno urbano internazionale? … e la forma urbis di Vema come la icona pop della fu 10. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia?
© arcomai l Caracas sangrante (1996) di Nelson Garrido. Opera esposta alla 10. Mostra Internazionale di Archiettura di Venezia, padiglione italiano. Inizio di un genere pulp–architettonico della fotografia?