La periferia e’ morta e il fotografo sembra non essersene accorto
Approfittando della presenza del fotografo milanese di fama internazionale, già documentata in L’equilibrio della periferia (di Oscar Ferrari), l’autore di questo contributo ha cercato con alcune domande poste all’ospite di indagare se vi siano le condizioni per la fotografia di attivare un processo narrativo in grado di far conoscere al grande pubblico gli aspetti reali della città contemporanea.
A Bologna, un mese fa, Peter Eisenman, durante una Lesson of architecture, denunciava lo stato di crisi in cui versa oggi l’architettura (mondiale) puntando il dito (sostanzialmente) contro la pubblicistica di settore ed in particolare contro le riviste di architettura che – privilegiando la “icona” (e quindi il supporto fotografico) al “testo” – hanno abbandonato quella posizione critico/culturale su cui si sono formate intere generazioni di architetti. Riguardo a questa effettiva situazione e nello specifico della realtà italiana, la cultura (non solo) architettonica sta vivendo – a mio parere – una stagione di “decadenza” più che di “crisi”, come testimonia il processo degenerativo (in atto) del sistema-media che, inghiottito da un perverso meccanismo di causa/effetto, mette a nudo lo stato regressivo della nostra civiltà contemporanea.
Nelle riviste il “male” da combattere non è tanto la prevaricazione di “ciò che si guarda” su “ciò che si legge”, quanto la standardizzazione, la normalizzazione e l’omologazione di questi due “linguaggi”. Tralasciando in questo contributo le questioni sulla teoria/critica del progetto, vediamo di fare alcune considerazioni su come “destabilizzare”quelle regole editoriali imposte dalle lobby che controllano le riviste di architettura – come (forse in modo un po’ troppo sbrigativo) sembra aver fatto riferimento il noto architetto americano nel suo intervento di Bologna – e, quindi, aggiornare il modo di “guardare” il mondo artificiale da parte dei fotografi di architettura.
Riguardo proprio alle regole, Basilico ci ricorda che la fotografia ha un suo “regolamento” e lo fa citando un episodio di qualche anni addietro quando, contatto dalla rivista svizzera DU, gli fu chiesto di collaborare ad un numero con un reportage sulle “nuove architetture parigine degli anni ’80” tra le quali erano previste anche le “piccole follie” alla Villette. Con sorpresa, dopo qualche settimana, ricevette da Bernard Tschumi (autore di quelle opere) una lettera in cui gli chiedeva gentilmente di rispettare i “10 comandamenti” (della fotografia di architettura). Questo episodio era stato da lui citato a supporto della risposta alla domanda con la quale si chiedeva se “… la fotografia è in grado oggi di emancipare il lessico fotografico che ritrae la architettura/città in modo da riportare equilibrio e verità al modo di vedere/comprendere il costruito”.
A completamento della risposta il fotografo aveva anche dichiarato che: “ci sono due modi di fotografare (l’architettura). Uno è quello legittimato dalle riviste che serve agli architetti per costruire l’architettura (e) per nascondere i difetti (del loro operato)”. Questo modo “non cambia mai, intanto perché l’architettura si fotografa sempre in “bolla”. Ci sono delle regole prospettiche che servono a rappresentare l’architettura e che non sono mai cambiate. Al di là di questo esiste anche un sistema, un linguaggio che è consolidato, che si è alterato poco, che si è alterato magari con la differenza tecnica, con la carta migliore, con il formato grafico, ecc…”.
Si scopre così che – sebbene si viva in un mondo in continuo divenire – la fotografia è soggetta ad un proprio “codice di comportamento” inossidabile ai cambiamenti della storia. Codice che Basilico fa intendere viene “giustamente” seguito da tutti i fotografi che si occupano di architettura o che lavorano per riviste di settore, perché: “…la fotografia di architettura è un accessorio realistico del disegno. La fotografia deve certificare che il disegno – che è la matrice (del progetto) – esiste anche nella realtà”. Bellissima definizione che però, invece di chiarire, contribuisce a stimolare ulteriori dubbi: Ma chi le ha scritte le “10 tavole della legge” in fotografia? E perché non infrangerle, visto che (soprattutto in arte) le “norme” esistono per essere sovvertite? È possibile che in un’epoca in cui anche la famiglia, oggi “cellula staminale” della società e cavia per esperimenti bio-genetici della “politica dello schermo”, la fotografia non possa mettere in discussione i codici che dagli Alinari ad oggi la controllano impedendole di aggiornarsi? Queste regole possono condizionare anche il progetto architettonico? Il progetto ha delle regole che dipendono dalla sua rappresentazione? Quali sono, allora, le altre costrizioni dell’architettura? Se il progettista chiede che le sue opere vengano rappresentate in maniera standard vuol dire che il “progetto” non è il risultato di un procedimento creativo “indipendente”? Ma, soprattutto, cosa vuol dire oggi “certificare il disegno” quando questo non è esiste più, è morto, è stato spazzato via dal digitale? Semmai, la fotografia, oggi, certifica il rendering più che il disegno che serve solo alle commissioni edilizie per mantenersi anacronisticamente in vita. È photoshop la nuova frontiera della fotografia?
La città (in tutte le sue polisemiche espressioni) è oggi raccontata da qualsiasi mezzo di rappresentazione. Ma è il video il grande narratore del nostro tempo: con programmi specialisti, generalisti o di intrattenimento la documentano in modo accurato e accattivante. Nel pomeriggio di oggi il programma Alle falde del Kilimangiaro (RAI 3) – che solitamente va in giro per i paradisi incontaminati del globo – ha percorso in lungo e in largo la Berlino “ricongiunta”. Che cosa ci dice di più la “fotografia” dall’immobilismo del suo “cavalletto” quando da venticinque anni Nonsolomoda ci fa vedere il “mondo” dal finestrino di un’auto in corsa? La fotografia, oggi, non dovrebbe entrare dentro le cose/case per comprendere meglio ciò che vediamo da fuori? I fotografi non dovrebbero ricercare (tutti insieme) una nuova “struttura dello scatto”, invece di fare a spintoni tra colleghi, cameraman o cinefili amatoriali per guadagnarsi la pole-position agli stessi angoli delle stesse strade per riprendere ciò che già sappiamo? Invece di suonare al campanello della solita famiglia dell’ottavo piano del palazzo di fronte al cavalcavia per immortalare le acrobazie stradali di Genova, perché non convincere quella del terzo, le cui finestre tremano ad ogni sorpasso, a farsi riprendere in “posa spontanea” mentre guarda la finale di uno dei tanti reality-show che monopolizzano il “Palinsesto Italia”?
Proprio a proposito di Genova il fotografo ricorda la domanda postagli da Stefano Boeri durante un recente incontro pubblico (nella città ligure), in cui gli chiedeva un giudizio estetico nei confronti del groviglio di strade che in modo “scoordinato” attraversa la città: “ma a te piacciano?” Così riportata, e non conoscendo il contesto, questa domanda è sembrata piuttosto ingenua, se non addirittura tenera come la risposta di Basilico che, replicando in modo affermativo al quesito, ha perso l’occasione di spiegare al pubblico presente in sala il perché le sue foto ci piacciano tanto.
Le grandi metropoli entusiasmano non per la qualità delle loro torri, in cui anche se c’è architettura questa si perde, ma dalla loro quantità, dall’aggressività, dall’impronta che imprimono sul un determinato territorio. Il valore estetico della città moderna è l’essere “monumentale”, essere “fuori scala”, essere espressione di qualcosa che in fin dei conti esprime modernità, conflittualità/criticità, senso della vita. L’edificazione, l’abusivismo, la speculazione (anche quella legalizzata) sono aspetti portatori di storia, simboli e conflitti. Ecco che la città per essere tale ha bisogno di un “conflitto” e i “volumi” ci aiutano a riempire questa nostra voglia di critica/crisi. È un fatto culturale tutto madeinitaly come conferma l’imbarazzante disattenzione degli Italiani nei riguardi di un landscape (che non è paesaggio) naturale che viene silenziosamente violentato dalle costruzioni ma, anche, dalla ignoranza diffusa in ambito di politiche ambientali.
Il lavoro che Basilico conduce da anni è caratterizzato esclusivamente da “esterni panoramici” ambientati apparentemente in aree di periferia. Dico apparentemente perché dietro c’è sempre un altro edificio, un altro condominio, un’altra torre per uffici, un altro centro direzionale, un altro sfondo; c’è sempre una quinta di cemento che non ti fa vedere i “margini” della città. Allora dov’è la periferia? Dove sono le case? Noi dove viviamo? Il pensare che esistono dei “confini” dentro/fuori i quali muoversi ci dà sicurezza. Non importa dove siamo, l’importante è saper se stiamo dentro o fuori questi. Oscar Ferrari nel suo contributo faceva notare la mancanza di didascalie nel libro che Basilico ha promosso all’incontro che qui si commenta. Io aggiungo che anche l’impaginazione casuale delle sequenze di scorci urbani, non supportate da una sceneggiatura narrativa dell’immagine, mostra un panorama urbano inquietante e astratto.
In Italia negli ultimi due decenni si sono attivati processi edilizi che hanno stravolto morfologia e rappresentazione di ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare periferia. Sembra che nessuno si sia accorto che da ormai molto tempo nel nostro paese la PERIFERIA È MORTA vale a dire – per intenderci – quella in bianco&nero che ha dato lustro/dignità all’ultimo sospiro del cinema italiano, le cui sceneggiature venivano scritte da riviste come l’Urbanistica, Spazio e società, L’architettura cronache e storia. La politica/demagogia della città italiana ha ucciso la periferia come un serial killer fa con le sue vittime in giro per gli stati dell’unione, sezionandola minuziosamente in pezzi geometrici da coloro che hanno la “esclusiva” delle pratiche edilizie, uccidendo pian piano l’anima che gli dà vita: la “urbanità”.
In Italia non riusciamo a liberarci dalla “cultura del piagnisteo” che trova nella fu-periferia il principale pretesto per sfogare primordiali istinti di rabbia, rimorso, vergogna, “divisione”. Pochi giorni fa a Bari abbiamo assisto ad una delle tante sceneggiate all’italiana con la demolizione in tre atti dello “ecomostro” di Punta Perotti che ha il difetto più delle altere “mostruosità” edili di trovarsi a pochi metri dal mare. Nessuno dei paladini dell’ambiente fa però le battaglie sulle devastanti overdose edilizie che con tanto di “autorizzazione a procedere” continuano a massacrare non solo migliaia di chilometri di coste, ma campagne, pianure, vallate e monti come se la vicinanza/distanza dal mare sia il parametro eco-sostenibile che legittima qualsiasi tipo di operazione.
A causa di questa “dieta mediterranea” coatta che ci porta all’estero per vivere la vera architettura, l’attenzione del pubblico si è spostata inevitabilmente/voracemente sul “costruito”, sulle periferie (per l’appunto) creando effetti morbosi/libidinosi di disprezzo&amore. È una fobia alimentata dai giornali, dai programmi televisivi, dai “luoghi comuni del comune pensare” ed anche dallo sguardo di alcuni maestri dello scatto-urbano che hanno contribuito in “negativo” ad alimentare questo fenomeno culturale mitizzando/criminalizzando la cosiddetta periferia; allo stato considerata sempre una, uguale, univoca.
Le immagini della città sono veicolate attraverso i “brevetti” con cui viene rappresenta. La città è un prodotto di consumo creato dagli imprenditori della politica e tutelato dal copyright di chi la riproduce. Il rischio che si corre è quello della sua classificazione in un “qualcosa” di fermo, immobile, piatto attraverso la stampa di un ritratto in “scala di grigi” che sfuma le differenze urbane, mette in ombra le urbanità, de-contestualizza l’ambiente, criminalizza la casa dove il 75% della popolazione italiana abita, monumentalizza, per l’appunto, questo processo di standardizzazione, normalizzazione e omologazione degli ambiti in cui viviamo. L’Italia non ha più la periferia perché è Lei la PERIFERIA DEL MONDO, dove il rosso finto dei mattoncini di rivestimento sta diventando l’unico “codice architettonico” del madeinitaly, dove le villette a schiera stanno rosicchiando il paesaggio, dove la “ideologia della conservazione” sta uccidendo lo spirito vitale di quelle generazioni che – per rendere forte una società di fronte alle insidie della storia – hanno bisogno di potersi riconoscere nel proprio tempo attraverso la rappresentazione del loro agire. La società italiana è decadente, pensionata; è un “senatore a vita” prigioniero di un sistema che lui stesso ha creato, è uno sguardo spento, retrospettivo, nostalgico, è un patetico. disobbediente reazionario.
Manca un approccio pro–attivo dello sguardo e anche la fotografia di architettura potrebbe – se riuscisse ad avere una visione trasversale del mondo – contribuire ad emancipare la cultura architettonica in Italia, potrebbe aiutare a comprendere dove stiamo andando, anticipando il video, documentando il presente, e far vedere ciò che sarà della città del domani se non fermiamo la “sottocultura” che alimenta la filiera perversa dell’industria delle costruzioni. Dai fotografi ci attendiamo gesti eroici: lottare per il superamento della “norma”; privilegiare la narrazione attraverso un linguaggio meno pulito, poco scientifico, più coraggioso. E allora: liberiamo le periferie dai fotografi e voi (fotografi) liberatevi dalla “mitologia” delle periferie! Non vi preoccupate, vi accompagniamo noi per mano nei cantieri delle cooperative, negli androni dei condomini, negli outlet, nei “borghi dei tigli” sparsi per il Paese, alle riunioni condominiali. Abbiamo bisogno di voi; abbiamo bisogno di “colori” per poter distinguere le diversità di cui ogni città è fatta, per riconoscerci nelle immagini del tempo, per liberare l’architettura dallo sguardo “catarattico” di chi ci vuole impone il loro modo di vedere le cose/case.