La scena alla base della ricerca compositiva di Suo Fujimoto

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© arcomai l Suo Fujimoto parla al World Architecture Festival di Singapore.

Come da copione, anche quest’anno il programma del WAF si e’ chiuso con l’intervento (key note) di un noto personaggio del momento. Per la sesta edizione del festival e’ stato scelto l’architetto giapponese Sou Fujimoto che noi abbiamo conosciuto alla 12. Biennale di Venezia (2012), dove aveva presentato la Primitive Future House, uno studio sugli spazi domestici organizzati grazie all’uso di un solo elemento, la lastra, che disposta a strati sfalsati crea ripiani che possono essere impiegati come tavolo, letto o sedia. Si ottiene cosi’ una casa priva di scale in cui ogni livello diventa un ambiente privo di funzione specifica perché i confini e le gerarchie tra ambiti sono annullati.

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© Sou Fujimoto Architects I Primitive Future House.

La Main Hall del Convention Centre del Marina Bay Sands di Singapore e’ gremita di persone. L’ospite apre il suo intervento parlando subito dell’essenza della sua ricerca compositiva: l’integrazione tra ciò che e’ naturale e ciò che e’ artificiale. “Non si tratta di mescolare le due entità – ha spiegato il relatore – ma di fonderle in modo appropriato cosi’ da creare qualcosa di nuovo. […] Non e’ un processo facile perché bisogna saper cercare e vedere cosa c’è tra la natura e l’artefatto. Solo se si comprende questo processo, si ottiene da cose diverse cose nuove”. Pronuncia queste parole con sullo sfondo le immagini del Serpentine Pavillion 2013, il padiglione-ponteggio da lui ideato che, come una “nuvola geometrica” atterrata sui giardini di Kensignton di Londra, sembra voler continuare la ricerca spaziale degli altri due connazionali che prima di lui hanno dato il proprio contributo alla rassegna londinese: Toyo Ito nel 2002 e SANAA (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa) nel 2009. Come loro lo studio di Fujimoto si concertata sul rapporto tra architettura e contesto giocando con trasparenze, leggerezza e riflessi che annullano i confini tra l’esistente e il nuovo, tra ciò che e’ dentro e ciò che e’ fuori il tutto rigorosamente bianco. Il manufatto, realizzato grazie ad una struttura reticolare composta da aste in acciaio a sezione quadrata disposte in modo da formare moduli di 80x40cm, occupa una superficie di 350 mq, e si distingue per la sorprendente inconsistenza e apparente fragilità, caratteristiche queste che incoraggiano le persone ad arrampicarvisi e interagire con la natura multifunzionale del padiglione. E’ per questa sua immaterialità che l’oggetto artificiale si avvicina alla natura integrandosi con essa. Il cambio delle stagioni e la direzione del sole durante il giorno – precisa il relatore – contribuiscono a loro volta ad enfatizzare la mutevolezza formale del manufatto. 

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Slide tratta della presentazione di Sou Fujimoto che riassume il concetto di integrazione tra natura e artefatto.

Per spiegare la concezione che lui ha di natura e artificiale, ha ricordato le sue origini “provinciali”. Nato nell’isola di Hokkaido nel nord del Giappone, ha trascorso un’infanzia come tanti altri bambini che abitano in aree rurali giocondo e trascorrendo il tempo a contatto con la natura. Trasferitosi a Tokyo per intraprendere gli studi di architettura, si e’ trovato di fronte ad un ambiente totalmente diverso. “Qui e’ tutto artificiale. La natura non esiste”, ha sentenziato. Eppure col tempo ha saputo riconoscere come piacevole  sia vivere a Tokyo: “Qui e’ tutto fatto di piccoli pezzi, anche se sono artificiali. E’ la scala delle cose che, – rimandando alla struttura della foresta, fatta di alberi, piante e foglie – ti circonda dandoti la sensazione di essere avvolto e protetto”.

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© 2013 Iwan Baan l Serpentine Pavillion 2013.

Se a Londra Fujimoto e’ riuscito a creare una “nuvola” con il sistema a struttura-ponteggio, a Tokyo con un simile approccio e’ stato in grado di realizzare un “albero abitato”. La House NA, e’ infatti una casa concepita come una pianta sui cui rami si trovano delle stanze sospese. “Ho penato di costruire un edificio fatto di piccoli pezzi. Non secondo la logica dei piani ma secondo un criterio concepito per “moduli minimi”. Il più grande di questi e’ di 2.5 x 2.5 m e da qui a scalare fino ad ottenerne altri dimensionati per funzioni (dimensioni umane) di base. Chi vi abita sceglie gli spazi. Tutto e’ piccolo e ti circonda” – con queste parole il relatore ha spiegato la natura intrinseca di questo progetto. Anche qui la separazione tra spazio privato e pubblico non è mai netto grazie ad ambienti flessibili che si succedono in modo naturale a definire uno ambito semi-privato dove le pareti, le sedute e la copertura sono generate dallo stesso elemento. Sebbene la casa sia composta da tre piani, la percezione dei livelli e’ indistinguibile essendo questi suddivisi in un sequenza di piattaforme sfalsate. I pochi muri che esistono sono per lo più in vetro e quindi insufficienti a garantire i tradizionali requisiti di privacy. L’ambiente abitato e’ come una grande stanza composta da  stanze mobili – definite dagli arredi minimi – il tutto collegato da scale che aiutano ad “arrampicarsi” da un ramo all’altro della casa. A guardare le foto che accompagnano la presentazione del relatore, si ha l’impressione di sentire le voci diffuse delle persone che vi abitano. Anche qui, come a Londra, i confini tra dentro e fuori sono indefiniti cosi’ come quelli tra la architettura e paesaggio, tra casa e città.

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© 2013 Iwan Baan l House NA.

Fujimoto chiude la sua presentazione commemorando la figura di Yukio Futagawa, il noto fotografo nipponico nonché fondatore della rivista d’architettura Global Architecture (GA) che si e’ spento lo scorso Marzo (all’età di ottant’anni) proprio quando era in corso una mostra, allestita da Fujimoto, a lui dedicata. L’installazione dal titolo “Minka, la Casa giapponese essenziale: Yukio Futagawa e le origini della sua fotografia architettonica, 1955″ (ospitata presso il Museo Panasonic Shiodome di Tokyo) e’ stata concepita come una passeggiata dentro la foresta del tempo, qui rappresenta dalle foto che dal 1955 Futagawa ha raccolto per documentate la casa (minka) della tradizionale popolare giapponese. Il messaggio del fotografo che lui ha inteso e che ora e’ alla base della sua ricerca – ha detto il nostro – e’ che gli artisti (e quindi gli architetti) non dovrebbero solo progettare l’artificiale ma tutto lo scenario. In giapponese – ha aggiunto Fujimoto – la parola scenario (風景) si traduce “fukei”, ove “fu-” sta per vento e “-kei” per scenario. La scena rappresenta quindi il flusso del tutto; l’artista deve progettare l’artificiale insieme al paesaggio in modo da comprendere il tutto”. Alla base delle opere dell’architetto giapponese vi e’ un sofisticato processo di calcolo (addizione e sottrazione) che attraverso l’astrazione del costruito (architettura) gli permette  di astrarre il contesto ottenendo cosi l’integrazione – e quindi lo scenario – tra il nuovo (artefatto) e l’esistente (natura).

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© arcomai l Jeremy Melville in conversazione con Sou Fujimoto.


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